SS 640, 21 settembre 1990: Sicilia, la strada che collega Canicattì ad Agrigento che diventa l’epicentro di un terremoto che si propaga fino ad oggi e che prova ancora a crepare il muro dell’indifferenza. Nonostante tutto.
Perché su quel tratto di strada non si trovarono soltanto Rosario Livatino, magistrato in servizio ad Agrigento, trentotto anni, già un maxi processo contro le cosche stiddare sulle spalle, e i killer mafiosi mandati ad ammazzarlo, ma anche un giovane agente di commercio, Piero Nava, che passava nei pressi proprio al momento dell’assassinio. Piero Nava si ferma, raggiunge il primo telefono pubblico e chiama i soccorsi, non scappa, non dimentica i particolari di quello che ha visto e li racconta puntualmente, firmando verbali che sono pesanti come una condanna. Anche per lui e per la sua famiglia, purtroppo.
Nel Paese del “Fatti i fatti tuoi che campi cento anni”, Pietro Nava, di cui il mondo avrebbe potuto ignorare l’esistenza e che avrebbe potuto tranquillamente procedere oltre, scrollandosi di dosso facilmente qualunque accenno di senso di colpa, invece si ferma e cambia la storia.
Il “terremoto” prodotto dall’incrocio imprevisto e drammatico tra i destini di Pietro Nava e Rosario Livatino si propaga in due direzioni distinte, ma collide contro la medesima “crosta”: quanto vale per la democrazia la ricerca della verità? Senza verità, quella umanamente rintracciabile per carità, può esserci giustizia? E senza giustizia, quella umanamente realizzabile con l’attività politica oltre che con quella giurisdizionale, può esserci Repubblica democratica? Certo che no: può al massimo restare un guscio vuoto, occupato abusivamente da centri di potere opachi e violenti, non più contendibili attraverso l’organizzazione libera del consenso ed il voto.
Così da un lato la direzione del terremoto dovuta al brutale assassinio di Livatino si propaga subito attraverso tutti i Procuratori siciliani del tempo, compresi Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, che minacciano di dimettersi in massa se lo Stato non cambia passo sulle risorse e sulla sicurezza per i magistrati in prima linea contro il crimine organizzato.
Dall’altro la direzione del terremoto, dovuta alla inaudita decisione di un anonimo agente di commercio di denunciare tutto quanto ha veduto, si propaga attraverso certe articolazioni sociali, sindacali, ecclesiali e politiche che comprendono come il dovere di denunciare, richiamato in maniera efficace nel contrasto al terrorismo autoctono durante gli anni 70 ed 80, debba diventare lo strumento fondamentale pure nella lotta di liberazione da mafie e corruzione.
Riprende slancio dunque, con la scossa tellurica del 21 settembre 1990, una spinta al cambiamento che produrrà sicuramente risultati concreti importantissimi, molti dei quali, va ricordato ancora una volta, ispirati da Giovanni Falcone in quella successiva, brevissima, stagione nella quale diresse l’ufficio Affari penali presso il Ministero della Giustizia (Ministro Martelli, Presidente del Consiglio Giulio Andreotti) tra il 1991 ed il 1992. Sul fronte dell’organizzazione investigativo-giudiziaria questa spinta avrebbe portato alla creazione della DNA, la Direzione Nazionale Antimafia (nota anche come Procura nazionale anti mafia ed anti terrorismo) cioè il coordinamento sistematico tra tutti gli uffici di Procura che si sarebbero occupati di criminalità organizzata e la creazione della DIA, la Direzione Investigativa Antimafia, cioè una nuova forza di polizia con compiti di prevenzione e di polizia giudiziaria, in grado di muoversi efficacemente su tutto il territorio italiano. Sul fronte della tutela del testimone questa spinta produsse quell’altra rivoluzione che portò dapprima alla normativa del ’91 che introdusse nell’ordinamento la figura del collaboratore di giustizia (cioè del delinquente che decide di offrire allo Stato informazioni preziose in cambio di sconti di pena e di condizioni di vita migliori) e poi, con maggiore e colpevole lentezza, alle norme del 2001 che finalmente (!) disposero la tutela ed il sostegno per i Testimoni di Giustizia (cioè delle persone per bene, come Piero Nava, che avendo visto o subito decidono di denunciare anziché girarsi dall’altra parte o subire). La normativa del 2001 troverà poi una evoluzione sistematica nella riforma del 2018 che definirà lo status autonomo del Testimone di giustizia. Ma che quella spinta tellurica non abbia ancora finito di cozzare contro la dura crosta di una terra insensibile alla verità ed alla giustizia lo segnalano alcuni fatti gravi.Da dieci anni a questa parte il Legislatore non riesce a trovare un termine italiano per tradurre l’inglese “whistleblowing” (colui che “soffia nel fischietto”, ovvero denuncia) perché adoperare termini come “spione”, “sbirro”, “infame”, “buscetta” non pare opportuno. La maggioranza di governo in Parlamento ha appena bocciato un emendamento che avrebbe allagato la platea dei “testimoni” sostenuti dallo Stato. La Procuratrice di Ivrea (soltanto per fare un esempio) qualche settimana fa ha dichiarato: piuttosto che lavorare in queste condizioni è meglio chiudere! A Torino il nuovo Procuratore della Repubblica, Giovanni Bombardieri, è stato accolto da una scopertura dell’organico amministrativo del 40% (come a dire: vorrete mica fare indagini e processi?!?). La destra al governo ha appena abolito l’abuso d’ufficio e tutto l’armamentario di prevenzione è sotto attacco, a proposito di potere libero di esercitarsi in maniera sempre più arbitraria, opaca, violenta e sempre meno contendibile. Che fare? Continuare a spingere contro quella dura crosta, essere “terremoto”.
Tratto da: ilfattoquotidiano.it