Il cambio del parroco, nella maggior parte dei casi, è un evento traumatico per una comunità e lo dimostrano le reazioni che puntualmente si scatenano: raccolte di firme, lettere di protesta, sfoghi sui social contro l’arcivescovo di turno considerato “colpevole” di voler distruggere il buon lavoro fatto. Palermo ovviamente non fa eccezione e le ultime nomine, decise da monsignor Corrado Lorefice e in vigore dal prossimo 15 settembre, hanno dato il via a un copione che si ripete praticamente uguale.
Qualche giorno fa il Giornale di Sicilia lo ha raccontato nella sua edizione cartacea, con tanto di dichiarazione polemica di uno dei presbiteri della Diocesi di Palermo mandati altrove, ieri si raccontava di una raccolta firme dei fedeli della parrocchia Gesù, Giuseppe e Maria dove un altro parroco verrà sostituito da un altro confratello: il primo sarà inviato a Termini Imerese, il secondo proviene invece dal quartiere Medaglie d’Oro. La petizione ha l’obiettivo di chiedere di non “separare un padre dai suoi figli” e di rivedere “una scelta che come comunità non comprendiamo e una decisione secondo noi brutale e contro ogni logica d’amore”.
Ma perché cambiano i parroci? Diciamo anzitutto che non si tratta di un “capriccio” del vescovo, ma di una precisa disposizione della Conferenza episcopale italiana che ha fissato in nove anni il tempo di permanenza di un sacerdote in una parrocchia (in altri Paesi è addirittura più breve), così da trovare un punto di equilibrio fra la “stabilità” prevista dal Codice di diritto canonico e l’esigenza di effettuare una rotazione.
Detto questo, e quindi smentita la convinzione che si tratti di una scelta ad personam o contraria alla prassi, vediamo di capire meglio perché è giusto che un parrocato sia “a tempo”. Con una doverosa premessa: chi scrive fa parte di una comunità parrocchiale che ha vissuto qualche anno fa il cambio del parroco dopo ben 17 anni e quindi comprende perfettamente i sentimenti che si provano in momenti come questo. Smarrimento, dispiacere per il distacco, in qualche modo timore per un futuro che, proprio perché tale, è incerto o comunque diverso dal presente e dal passato. Col tempo, però, si riesce a valutare con più serenità un evento e magari a comprenderlo meglio.
LA CHIESA NON FINISCE IN PARROCCHIA
Prima considerazione. Anzitutto ricordiamoci che la Chiesa non inizia e non finisce nelle nostre parrocchie, troppo spesso vissute e concepite come realtà a sé stanti; le parrocchie non sono altro che articolazioni territoriali di una Chiesa che non è solo diocesana, ma addirittura universale. In Cristo siamo tutti uniti, in cammino verso la Gerusalemme celeste, insieme e non separati secondo quel principio di sinodalità che a volte perfino noi laici fatichiamo ad attuare. Se una comunità parrocchiale esplode di iniziative e attività e un’altra invece vive un momento di difficoltà per i più svariati motivi, non possiamo pensare di abbandonare la seconda a se stessa; anzi, vuol dire che proprio la comunità in difficoltà avrà bisogno di un parroco capace, anche se questo significa toglierlo da una parte per metterlo in un’altra. Se una madre capisce che uno dei suoi figli vive un momento difficile, non vi si dedicherà forse con maggiore attenzione? Questo non significa che voglia meno bene agli altri, ma semplicemente che ha capito che uno in particolare in quel momento ha più bisogno. Se siamo tutti membra dello stesso corpo, come dice San Paolo, non possiamo pensare che se il braccio fa male il resto stia bene; se c’è un malessere, riguarderà tutte le parti.
LA PARROCCHIA NON FINISCE COL PARROCO
Seconda considerazione. Una parrocchia non inizia e non finisce col proprio parroco, per quanto la figura e la funzione di guida del presbitero sia essenziale; una parrocchia, se è riuscita a crescere nella fede e nell’amore, al di là di una normale fase di assestamento dovuta al cambio di parroco, resterà in piedi. I parroci sono temporanei, la parrocchia con le sue componenti invece resta e continua nel suo cammino e guai se così non fosse. In questo noi laici abbiamo un ruolo importante che spesso dimentichiamo e non esercitiamo anche perché farlo richiede tempo, pazienza, studio, buona volontà. Delegare tutto a un parroco è più facile che sbracciarsi.
L’OBBEDIENZA, QUESTA SCONOSCIUTA
Terza considerazione. L’obbedienza non è un valore desueto, anzi andrebbe riscoperto sai dal clero che dai laici: da bambini o da giovani spesso non capiamo gli insegnamenti dei genitori, anzi ci ribelliamo, ma poi crescendo, col tempo e guardandoci indietro, magari comprendiamo le ragioni di un divieto o di una raccomandazione proprio grazie all’esperienza e a una prospettiva più ampia. Lo stesso accade coi vescovi: non che siano infallibili, per carità, ma sicuramente hanno una visione dell’intera diocesi che ad altri inevitabilmente manca e quindi possono bilanciarne e valutarne meglio i bisogni e le necessità.
LA NOSTRA RADICE È IN GESU’
Quarta considerazione. Ricordiamoci che, per quanto ci possiamo affezionare ai nostri parroci o ai nostri vescovi (ed è bello che sia così), la nostra radice è in Cristo: non andiamo a Messa per il parroco, ma per Gesù; non svolgiamo un servizio per il parroco, ma perché ci sentiamo chiamati dal Padre a un atto d’amore. Ecco perché non dobbiamo sentirci attirati o respinti dal presbitero di turno: il parroco è un uomo come noi, anche lui in cammino con i suoi limiti, la sua crescita, i suoi errori, le sue cadute e come noi ha bisogno di sostegno e accompagnamento spirituale. Quanto sarà difficile per il nuovo parroco insediarsi in una comunità che già gli preannuncia di non volerlo?
IL CAMBIAMENTO CI RENDE VIVI
Quinta considerazione. La vita non è mai uguale, è un’esperienza che muta continuamente: si cresce, si cambia città, si cambiano gli amici, si cambia lavoro. A volte si tratta di cambiamenti piacevoli (per esempio un matrimonio), altre volte di cambiamenti decisamente meno belli (una malattia, un lutto). Il punto però è che la vita ci spinge a non rimanere fermi e la Scrittura ce lo conferma: Abramo è chiamato a lasciare tutto e partire, Mosé deve addirittura andare contro i faraoni che lo avevano salvato, i profeti dicono il loro “eccomi” anche a costo della vita, Maria pronuncia il suo “fiat” affidandosi pienamente a Dio, gli apostoli seguono Gesù senza capire pienamente chi sia. Il cambiamento ci rende vivi, ci spinge a misurarci con i nostri limiti e a superarli, a fare i conti con le nostre certezze che tali non sono, a rimetterci in gioco e a crescere: lo stesso vale per una comunità e per un parroco che magari, dopo tanti anni, quasi sono assuefatti, abituati a fare tutto sempre nello stesso modo.
Cambiare è facile? No, cambiare è difficile, difficilissimo: significa ricominciare da capo, essere pronti anche ad abbandonare le rendite di posizione, dover continuare a faticare. Però Dio ci chiama a questo perché anzitutto lo ha fatto lui: poteva rimanere “beato” nel suo essere “totalmente altro” e guardarci dal paradiso, senza intromettersi nelle nostre umane esistenze, e invece si è addirittura incarnato salvandoci con l’amore. Dio ci chiama al cambiamento, ma al tempo stesso ci accompagna e ci dà la forza di affrontarlo: la strada non è protestare ma affidarci a lui, anche se non capiamo il suo piano e dove ci condurrà.
(Fonte: portadiservizio.it – Roberto Immesi)