La storia di Emeka Obinna Nwankwo
“Io non ho avuto scelta, non ce l’avevo la libertà di scegliere. Sono stato costretto perché volevano ammazzarmi” racconta con voce arrabbiata Obinna Nwankwo. “Non è facile lasciare la famiglia, gli amici, la terra dove sei nato, dove conosci tante persone, dove sei cresciuto, dove hai speso quasi tutta la tua vita. E poi decidere in fretta di lasciare, di abbandonare tutto. Non è mai facile”. Obinna, a soli diciannove anni, ha dovuto lasciarsi alle spalle la Nigeria, la sua casa, ed è andato in Libia accompagnato da un amico: “Avevo bisogno di un posto in cui stare tranquillo per un po’ e far calmare le acque nel mio Paese. Invece non è stato così, la Libia è un inferno”. In una Libia devastata dalla guerra, viene arrestato perché senza documenti, in prigione resta due o tre mesi, il suo ricordo non è nitido, trascorsi chiuso in una stanza insieme ad altre cinquanta persone. “Era proprio invivibile”, rievoca a fatica. Dopo la prigione, arriva l’offerta di rientrare in Nigeria, per lui però si profila un ritorno pericolosissimo, “sia perché c’erano ancora quelle persone che volevano uccidermi, sia perché la strada del ritorno è piena di soldati che sparano, non è sicura. E poi non c’era più il mio amico, morto in Libia”. Per la seconda volta si ritrova senza scelta. Dopo la Libia e la prigione la sua strada prosegue verso l’Europa, “una scelta forzata da un’arma puntata alla testa. Ti portano là vicino al mare e o entri dentro la barca o ti ammazzano. Quindi ho dovuto scegliere di entrare nella barca senza sapere dove sarei arrivato e come finisci finisci. Mi aspettavo di andare a mare e morire. In quel momento, l’unica cosa che fai è pregare che Dio ti aiuti, non hai altra scelta”. È stato salvato dall’imbarcazione di una ong: “Per aiuto di Dio e di queste persone che lavorano in mare siamo sopravvissuti”.
Le cause non visibili delle migrazioni
Quello migratorio, come qualsiasi fenomeno umano, è il risultato del concaternarsi di dinamiche complesse, alcune visibili, altre meno. Su questo aspetto in particolare si sofferma Amaya Valcarcel, del Jesuit Refugee Service, organizzazione cattolica internazionale attiva in 57 nazioni, che accompagna, serve e difende i diritti dei rifugiati e degli sfollati. “Persecuzioni, guerre, fenomeni atmosferici, miseria – spiega – sono le cause più visibili delle migrazioni forzate contemporanee. Tuttavia, i migranti scappano anche per la povertà, per paura, per disperazione, anche se queste cause molte volte non sono visibili. A noi arrivano i sintomi, ma non il perché tanti migranti e rifugiati scappano dalle loro terre”. Ciò che non viene compreso dell’esperienza migratoria, è opinione del Jrs così di molti altri, è il dramma che c’è dietro un’azione realizzata senza possibilità di scelta.
Come fermare le migrazioni forzate contemporanee
Papa Francesco ha più volte indicato, e le parole spese durante il suo viaggio a Marsiglia lo hanno confermato, come a tutti debba essere riconosciuto il diritto a non emigrare, e quindi il diritto a vivere in pace e con dignità nella propria terra. E per questo, continua Amaya Valcarcel riprendendo le parole del Pontefice, “è necessario un sforzo congiunto, non da parte di un governo o di una singola istituzione, ma uno sforzo dei singoli Paesi e della comunità internazionale”. Senza dimenticare, fa poi notare, la responsabilità delle Chiese e realtà locali nel creare le condizioni ottimali a fermare le migrazioni forzate contemporanee. Il Jesuit Refugees Service considera questa una priorità, occupandosi soprattutto “dell’educazione alla pace al fine di creare comunità di pace e di conciliazione”. Pace, ascolto, incontro, conciliazione, accoglienza sono le parole cardine intorno a cui ruota il messaggio di Francesco dedicato ai migranti e ai rifugiati e alle comunità che li accolgono. Amaya, ripete con convinzione le parole del Pontefice, auspicando che esse diventino il faro che possa guidare l’azione dei singoli e dei governi quando si tratta di approcciarsi alle migrazioni: “Ovunque decidiamo di costruire il nostro futuro, nel Paese dove siamo nati o altrove, l’importante è che lì ci sia sempre una comunità pronta ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare tutti, senza distinzione e senza lasciare fuori nessuno”. La storia di Obinna e dei 281 milioni di esseri umani che migrano nel mondo – secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni – è la storia di ciascuno e di tutti.