Il Corriere della Sera ha pubblicato una lunga intervista al cardinale e teologo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura – una sorta di ministro della Cultura del Vaticano – e da anni autore di riflessioni sulla religione e sulla società apprezzate anche da molte persone non credenti. Tra le altre cose, Ravasi ha parlato della sua infanzia, di un suo innamoramento giovanile, della paura della morte, e di una sua biografia su Paolo di Tarso pubblicata da pochi giorni da Raffaello Cortina Editore.
A un certo punto Ravasi si è soffermato su Milano, da lui definita «una città europea, molto più di Roma», e sui processi di secolarizzazione che interessano entrambe le città e la società in generale. «Se Cristo tenesse oggi in piazza il discorso delle beatitudini, arriverebbe la Digos a chiedergli i documenti», ha detto, confrontando il presente con il periodo in cui le chiese in Brianza erano il principale centro di incontro per contadini e operai. Il suo riferimento è a un celebre discorso di Gesù, presente sia nel vangelo di Matteo che di Luca, in cui dice, tra le altre cose: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la Terra».
Nato a Merate nel 1942, Ravasi ha raccontato di aver trascorso il primo anno della sua vita a Santa Maria Hoè, in provincia di Lecco, dove si era rifugiato con sua madre per evitare i bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale. Suo padre, antifascista, fu mandato a combattere in Sicilia in prima linea: «Disertò, con molti altri. Tornò a casa a piedi, ci mise un anno e mezzo».
Riguardo all’abitudine di alcuni politici di mostrare in pubblico simboli religiosi, Ravasi ha definito «pericolosa» questa pratica, e non necessariamente segno di fede. «È strumentalizzare simboli che conservano una potenza straordinaria, e proprio per questo non vanno sfregiati impugnandoli a fini estrinseci».