• 23 Novembre 2024 1:28

Quotidiano di ispirazione cristiana e francescana

Omelia dell’Arcivescovo Corrado Lorefice nel XLI anniversario uccisione Prefetto Dalla Chiesa

Signor Presidente della Repubblica, Gentili Servitori delle Istituzioni civili, militari e religiose, Carissimi familiari dei martiri di Via Carini, Carissime e Carissimi tutti,

non sarò il solo oggi a cogliere l’ermeneutica implicita dell’intera vita del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa contenuta in questi due versetti della Lettera di Paolo Apostolo ai Romani: «Vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1-2).

Per l’Apostolo, «culto spirituale» è offrire i corpi come sacrificio vivente, discernere e attuare ciò che è buono e giusto senza conformarsi al giudizio comune e alle logiche dominanti, a quello che Gesù, nel Vangelo, definisce «il pensiero secondo gli uomini» (cfr. Mt 16,23), e il Prefetto “dei cento giorni” a Palermo chiamava «il modo di vivere abituale» (Discorso agli studenti del Liceo Scientifico “Gonzaga”, 2 giugno 1982).

L’anno scorso, attraverso le letture bibliche, avevamo messo in evidenza la fede del Generale dalla Chiesa, «una cara, dolce costante» della sua vita (Diario, 31 marzo – 1 aprile 1978), come egli stesso l’aveva definita. La fede religiosa era a fondamento della sua grande passione morale, della sua determinazione – sostenuta da un’alta professionalità acquisita lungo «41 anni […] spesi proprio sulla breccia» (Discorso al “Gonzaga”) – a cercare esclusivamente ciò che è giusto e ad individuare il grido che si leva dalla sofferenza umana, ed in particolare quella sofferenza causata da strutture di peccato create e controllate da uomini e donne che impongono il loro potere oppressivo sugli esseri umani. Uomo dalla grande passione morale, come in Geremia, nel suo «cuore c’era come un fuoco ardente» (Ger 20,9). La passione che lo portava «a contatto con la realtà di ogni giorno – affermava il Prefetto stesso dinanzi agli studenti del Gonzaga –, a contatto con i modesti, con gli umili, con i probi, proprio perché fossero difesi dai cattivi».

In questi giorni sto leggendo un recentissimo libro La religione come passione morale (G. Ruggieri, 2023), ove appunto si identifica la religione con la responsabilità morale, cioè con quel sentimento del dovere incondizionato che si avverte di fronte a ciò che è giusto: «La passione morale presente in ogni uomo impone infatti una fondazione religiosa, un rimando all’assoluto, qualunque sia il nome che gli umani escogitano per esso. E, in direzione inversa, ogni fede religiosa, pur nelle sue articolazioni più specifiche, scopre, come suo alleato prezioso, il grido che si leva dalla sofferenza umana, cioè l’istanza religiosa» (p. 60). Ritroviamo nitido questo motivo nella II Lettera a Timoteo quando Paolo afferma che la Scrittura, ispirata da Dio, è utile per «formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (3,16).

Gesù stesso – richiesto su “come” si entra nel regno dei cieli – indica la porta stretta della giustizia, non quella delle manifestazioni rituali e delle opere religiose: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.  Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità» (Mt 7,21-23; cfr Sal 6,9). Egli si appella alla pratica della giustizia che esige l’ascolto della sofferenza dei poveri, degli scarti umani, con i quali si identifica: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). È questo il culto gradito a Dio.

Chi compie il male è insensibile alla sofferenza umana. Diventa imprenditore e propagatore compiaciuto di sofferenza. Questo è la mafia, questo sono gli uomini e le donne delle organizzazioni mafiose. Questo sono i piromani che appiccano il fuoco devastatore della nostra martoriata Sicilia. Questo sono i sette stupratori della ragazza dilaniata nel corpo e nell’anima al Foro Italico: giovani accomunati dal delirio di ‘onnipotenza virile’, scatenatosi su una donna trattata come mera ‘carne’ da preda. Uomini e donne, adulti e giovani, che hanno smarrito la passione morale. Incapaci di amare, di rispettare e di onorare la vita altrui. Uomini e donne, pertanto, senza fondazione religiosa, indifferenti alla sofferenza umana, all’ingiustizia. Seminatori di dolore e divulgatori di iniquità. Idolatri della violenza. Vittime anche loro della deriva antropologica in atto frutto della sconfitta educativa che pesa sulla coscienza di noi adulti.

L’uomo proteso alla giustizia – l’uomo capace di «culto spirituale» –, ascolta e prende parte alle sofferenze degli altri fino a farsene ferire mortalmente. Spesso la scelta di «fare ciò che è giusto fra gli uomini» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, 2002), presa davanti alla propria coscienza e davanti a Dio, viene fatta in totale solitudine, se non nell’incomprensione e nell’avversione anche dei più prossimi o delle stesse istituzioni che si servono. La consapevolezza e la determinazione che dimostra Gesù nella narrazione dell’odierna pagina evangelica ce lo conferma: «Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (Mt 16,21). La sua – quella di Gesù – era una vita protesa verso la sofferenza degli altri, una vita carica di una grande passione morale. Una vita che rendeva presente la com-passione di Dio per gli uomini, la sua con-divisione per la loro liberazione.

Nelle parole di Gesù: «chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25) ritroviamo il fondamento della passione morale – conservata fino alla morte – del Generale dalla Chiesa, della consorte Emanuela Setti Carraro e dell’Agente della Polizia di Stato Domenico Russo. Riconosciamo la loro fede religiosa, il loro “culto spirituale” nell’offerta dei loro corpi per la pienezza di vita di altri corpi, di altre vite. Per una città umana che cresce nella passione morale, riscattata dalla morsa delle mafie, dall’omertà e dalle contiguità, dall’odio e dall’indifferenza, dalla prevaricazione maschilista e dalla nefasta legge del profitto che genera oppressione, morte e scarti. Per una città umana che conosca artigiani di rigenerazione e testimoni di speranza di cieli nuovi, di mari nuovi, di una terra nuova.

La loro memoria accenda in noi la stessa passione morale e ravvivi la nostra fede religiosa. Siamo chiamati ad onorare questi nostri martiri della giustizia e della fede assumendo la responsabilità di promuovere una cultura della vita, della giustizia e dell’amore. Pagando anche di persona. Come loro e con loro. Vale per la nostra generazione – soprattutto per quanti rivestono funzioni pubbliche e istituzionali – quello che il Prefetto dalla Chiesa chiedeva, da autentico educatore/testimone, alla nuova generazione di studenti incontrati al Gonzaga: «Da chi è in buona fede, così come sono io in buona fede, non c’è che da attendersi un apporto spirituale, un apporto morale che valga a far dimenticare quello che i vostri giovani predecessori hanno fatto anche perché travolti dalle circostanze, travolti da una natura che non era più contenibile, regolabile, inquadrati in un alveo che sapesse di saggezza e di equilibrio. […] Guardate che se voi riuscite ad affrontare questi concetti, voi avrete anche a raccogliere delle soddisfazioni e delle gioie».