Era il 3 settembre 1982 quando in via Isidoro Carini, a Palermo, si consumò una strage mafiosa che costò la vita al Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, alla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta, Domenico Russo. Un massacro avvenuto in pochi attimi quando i killer affiancando le auto in movimento, uscite poco prima da Villa Whitaker (sede della prefettura) per andare a cenare in un ristorante di Mondello, spararono all’impazzata colpi di kalashnikov AK-47.
Fin da subito fu evidente che con quel delitto Cosa nostra alzò il livello dello scontro contro lo Stato, o almeno la parte sana. Nel corso del tempo attorno all’uccisione dell’altissimo ufficiale dell’Arma si sono delineati gli elementi tipici che hanno caratterizzato le grandi stragi di Stato: ovvero sparizione di documenti e tentativi di depistaggio delle indagini (alcuni più velati).
Le sentenze hanno accertato le responsabilità di Cosa nostra con le condanne in via definitiva dei killer (Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia, insieme ai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci) e dei cosiddetti “mandanti interni” a Cosa nostra (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci).
Domani, a Palermo, si celebrerà la commemorazione sul luogo della strage. In via Isidoro Carini verranno deposte alcune corone di alloro in memoria delle vittime. Tra i presenti, oltre alle più alte cariche delle istituzioni civili e militari, ci saranno anche i familiari come, per esempio, il figlio del generale Nando dalla Chiesa, professore ordinario di sociologia della criminalità organizzata presso l’Università degli Studi di Milano, il quale – raggiunto dai nostri microfoni per un’intervista – ha voluto precisare il suo essere “professore” per sottolineare l’importanza di insegnare ai giovani quali sono gli antidoti alla cultura mafiosa e alle sue espressioni.
Professore, suo padre venne mandato a Palermo per contrastare Cosa nostra senza però ricevere le armi adeguate, come gli fu promesso. Perché?
Mio padre ha dovuto accettare l’incarico affidandosi ad una rassicurazione fondata solo sulle parole. Si insediò lo stesso giorno dell’assassinio di Pio La Torre. E davanti al Paese non poteva dare l’immagine di un generale che nella gravità dei fatti aspettasse una firma da parte del governo. L’urgenza che giustificò il suo trasferimento fu anche una trappola per lui. Non fu consolidato nulla, non furono predisposte forme di coordinamento ma soprattutto non fu investito davanti alla mafia e all’ambiente circostante di quello che mio padre reclamava e chiedeva.
A cosa si riferisce?
Mi riferisco al prestigio di rappresentare pienamente lo Stato. È per questo che dovette cercare di costruirsi sul campo un sistema di alleanze, di sostegno e legittimazione che trovò negli ambienti più diversi ma che non trovò sui versanti alti delle istituzioni.
Dalla Chiesa voleva indagare sui movimenti bancari e sul rapporto mafia politica. Per questo chiese di accentrare su di sé il coordinamento di tali informazioni, perché strumenti conoscitivi ma aveva le mani legate. Rivolgendosi al potere politico con cui aveva sempre dialogato quando lottava contro il terrorismo, trovò un muro. Era la Democrazia Cristiana di Giulio Andreotti, al quale disse che non avrebbe fatto sconti a nessuno. Andreotti tradì suo padre?
Secondo me mio padre disse quella frase ad Andreotti per chiarire i rapporti. Andreotti fu suo superiore durante la lotta al terrorismo. Mio padre dipendeva per legge direttamente dal Presidente del Consiglio dei ministri e quindi aveva anche un rapporto di riconoscenza per quella nomina. Questo portò Giulio Andreotti a sentirsi autorizzato a chiedergli con che intenzioni andasse in Sicilia. Il colloquio fra i due avvenne mentre Andreotti era presidente della Commissione Esteri del Parlamento e quindi non aveva un ruolo legato alla lotta alla mafia. Mio padre cercò di mettere le cose in chiaro. In sostanza gli disse che era riconoscente per ciò che ebbe ma che rivestiva la carica di un uomo di Stato e non di un uomo di partito. E secondo me in quel dialogo ristabilì lui la forza di alcuni concetti dicendo ad Andreotti che andando in Sicilia sapeva che avrebbe trovato soggetti politici importanti legati alla corrente andreottiana della Dc e in quel momento gli disse che non avrebbe fatto sconti a nessuno. Fu una dichiarazione di trasparenza che certo non gli giovò, anzi gli ha nuociuto molto dal punto di vista dell’esito del suo invio in Sicilia e dei rapporti con il potere siciliano.
L’assenza di Andreotti ai funerali di Carlo Alberto dalla Chiesa è una conferma?
Certo, fu un segno di grave inimicizia e di rottura anche morale nei suoi confronti.
Le stragi e i delitti eccellenti di mafia spesso sono accomunati da un copione che prevede, dopo l’uccisione della persona, anche la sottrazione di documenti importanti che la vittima spesso tiene nascosti in cassaforte. Anche nel caso di suo padre il copione si è realizzato. La sera del 3 settembre 1982 a Palermo sono scomparse delle carte riservate del generale dalla sua borsa di pelle – ritrovata vuota dopo 31 anni nel palazzo di giustizia -, dalla cassaforte di villa Paino (dove risiedeva) e, nei giorni successivi, anche da una villa in Campania. La mafia, dunque, operò da sola?
No, non fu solo mafia. Quando si chiuse il Maxiprocesso furono gli stessi magistrati a spiegare che vi furono interessi convergenti con i mafiosi. Si aprì anche un fascicolo sui mandanti esterni a Cosa nostra. È bene ricordarlo, perché furono gli stessi magistrati che istruirono il Maxiprocesso, appunto, a sospettare la presenza di mandanti esterni. I mandanti esterni ci furono ma non per il caso Moro.
Perché questa precisazione?
Da decenni mi dispero con i giornalisti che ogni volta rievocano le “carte di Moro”. Nella cassaforte di mio padre non c’erano le “carte di Moro”. C’erano atti di inchiesta che riguardavano la mafia palermitana. E, infatti, furono trovati, nascosti sotto il sedile dell’auto in cui fu ucciso mio padre, da chi fece il primo verbale di ritrovamento. La vicenda delle “carte di Moro” ha dato un alibi per non cercare la verità e per non raccontare ciò che era successo davanti a tutti. Per diventare coraggiosi invocando dei misteri inesistenti e non dicendo quello che tutti avevano potuto vedere.
Suo padre era “un morto che camminava”? Sospettava che lo avrebbero ucciso?
In mio padre non ci fu mai questa espressione del “morto che cammina”, anche perché la parentesi palermitana fu così breve che era difficile cucirgli addosso questa immagine cinica e beffarda che, invece, venne poi attribuita a Giovanni Falcone o a Ninni Cassarà. Sicuramente mio padre aveva la consapevolezza che lo avrebbero potuto uccidere, ma molti trascurano ciò che fece.
Può spiegarci?
Molti trascurano i 7 anni in cui fu comandante della Legione carabinieri in Sicilia (1966 – 1973), le audizioni davanti alla commissione parlamentare antimafia (in cui dimostrò di sapere i rapporti che avevano i mafiosi mettendoli per iscritto), i verbali e i rapporti inviati che coinvolgevano personaggi politici che successivamente mio padre si ritrovò a Palermo. C’è proprio una rimozione (nella narrazione, ndr) di un periodo che invece fu quello che diede alla mafia la certezza di ciò che avrebbe fatto mio padre se avesse avuto pieni poteri andando a Palermo. Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo con una lunga serie di attività importantissime e con quelle dichiarazioni che sicuramente avevano saputo (i mafiosi, ndr). Andare a cercare Aldo Moro invece di dire davanti a tutti che c’era un partito (la Democrazia Cristiana, ndr) che cercò di salvare i suoi equilibri nazionali – perché la Sicilia era il forziere di Giulio Andreotti -, isolando e poi facendo uccidere Carlo Alberto dalla Chiesa per vedere cosa aveva nei cassetti, va contro ciò che è successo. Basterebbe raccontare ciò che è avvenuto. Questo è uno dei grandi paradossi del giornalismo italiano. Non avere detto quello che era accaduto e avere cercato la verità in cassetti inesistenti. Poi è chiaro che possono esserci stati pezzi di lavoro, relazioni, verbali, informazioni raccolte nel frattempo (che hanno portato alla sua uccisione, ndr)… anche perché in quel periodo mio padre denuncia il nuovo rapporto tra corleonesi e imprese catanesi a Palermo.
Suo padre aveva un grande senso del dovere. Un sentimento raro oggi in chi ricopre incarichi fondamentali per contrastare le mafie. Mi riferisco, per esempio, alla classe dirigente. Secondo lei la politica non si è resa conto dell’evoluzione delle mafie?
Premetto che, nonostante la mafia sia sempre più economica, continua comunque ad essere radicata nel territorio. Questa è la sua prima forza. Ed è anche la sua sostanza, altrimenti sarebbe criminalità economica. Stiamo parlando di un fenomeno che ha acquisito pericolosità per i passi avanti straordinari che ha fatto nel tempo, soprattutto al nord con la ‘Ndrangheta, per esempio. Cosa nostra è in declino ed è incomparabile rispetto alla sua potenza negli anni ’80. Chi osa fare un paragone lo fa perché non ha vissuto gli anni ’80 e non li conosce. La ‘Ndrangheta, invece, è andata molto avanti e rispetto a questa evoluzione la classe politica è fondamentalmente inadeguata a contrastarla, sia per competenze sia per spinta morale.
(Fonte: antimafiaduemila.com)