• 21 Novembre 2024 22:43

Quotidiano di ispirazione cristiana e francescana

di Francesco Chillari – «Scotta una penna quando scrive l’imprevisto, quando scopre quello che è nascosto, quando non si gira dall’altra parte. L’arte non è una posa, ma resistenza alla mano che ti affoga» (Scotta). Con queste parole, dense di bellezza e cariche di un pensiero che non lascia mai indifferenti, Niccolò Fabi  ha  inaugurato circa un anno fa il suo nuovo album, Tradizione e tradimento, che è uscito a distanza di poco più di tre anni da Una somma di piccole cose (Premio Luigi Tengo 2016).

Tradizione e tradimento è un album che conferma decisamente la statura, musicale e letteraria, di Niccolò Fabi, la sua capacità come pochi di scrittura, l’empatia che riesce a stabilire con l’ascoltatore, che non può non sentirsi rappresentato dentro la delicatezza dirompente dei suoi testi, nel suo saper dire il dolore sussurrandolo e trasformandolo, nel suo sapere accarezzare l’umanità più fragile e ferita. Resistenza alla mano che ti affoga l’arte, la sua arte! Una voce, quella di Fabi che non urla in faccia, ma che sa prendere per mano accompagnando dentro le oscure profondità dell’animo umano e vi getta luce; una voce che forse non scala le classifiche, che non rimbomba dentro gli altoparlanti delle macchine e circola poco dentro l’affollato traffico delle radio, ma riesce ad elevare sulle cime di un pensiero “ad occhi chiusi”: «Anche un orologio rotto ha ragione per due volte al giorno, e allora perché non posso sentirmi come mi sento? I tempi stanno cambiando, ma l’unica cosa che conta è amare quello che ho intorno e sentire in faccia il vento» (I giorni dello smarrimento).

L’antidoto alle relazioni fragili che imperano è riconoscersi nell’altro. Per amare tutto quello che ci circonda, canta Fabi, dobbiamo specchiarci nell’altro. «Io sono l’altro, sono quello che spaventa, sono quello che ti dorme nella stanza accanto, […] sono il velo che copre il viso delle donne, ogni scelta o posizione che non si comprende» (Io sono l’altro).

“Io sono l’altro” è stato visto come un brano dalla forte connotazione sociale, dedicato agli emarginati, agli ultimi, ai migranti o disabili. In realtà la canzone è più un invito a immedesimarsi con chi hai davanti, a non spaventarsi dell’altro, a comprendere che l’altro è non solo un individuo, ma una storia, che lo rende uomo ferito e alla ricerca di senso come qualsiasi altro uomo. Gli avvenimenti ci fanno diventare sicuramente un popolo di sacerdoti: in questa storia, talvolta dilaniante e violenta, non più gabbia per la brutalità e bestialità dell’uomo, io sono l’altro, con le braccia aperte sull’altare di un sacrificio che, nonostante la dubbia apparenza, è Bellezza. Non Bellezza di un male che distrugge e richiede giustizia, ma Bellezza dell’uomo nella sua fragilità, da sollevare, da accarezzare, da fasciare, da baciare. Bellezza dell’uomo in lotta con la sua storia, la sua cultura, il suo Credo, le sue tradizioni, che a volte conducono alla barbarie e al non-senso. Bellezza dell’uomo da dipingere con sguardo di fratello e amico.

«Quest’anno come sempre ripartiremo insieme; il viaggio sarà lungo settimane o forse mesi. Dopo aver mangiato in un tramonto rosso fuoco andremo via» (Migrazioni). È l’apocalisse dello straniero. La rivelazione mai definitiva che l’essere forestieri rende alla propria umanità. Sempre e comunque. Sia che il viaggio avvenga fisicamente, dentro il fascino nudo, seducente e misterioso di un mondo prima non conosciuto, sia che avvenga interiormente, dentro il tremendo incanto del proprio spirito in magmatica trasformazione. Straniero! Nel deserto dell’ignoto e dell’imprevedibile. Nei sentieri della novità e della libertà. Nei precipizi dell’intelligenza e della fiducia. Come il poeta, che scava sempre dentro le acque profonde della parola, per scoprire infine di essere sempre straniero e in ricerca. In ricerca di una Bellezza nascosta, che trova e che non gli basta mai. Perché una volta raggiunta questa Bellezza, il poeta scopre che c’è qualcosa che può renderla ancora più attraente, ancora più divina. E allora ricomincia a ricercare, facendo della ricerca il senso della sua esistenza bella. Perché è bella l’esistenza. È bella la ricerca. Ma per ricercare è necessario essere stranieri. Stranieri, come le stelle cadenti nelle chiare notti d’estate. Stranieri, come le chiare notti d’estate, che scendono fresche sopra i sogni dell’uomo che ama. Stranieri, come i sogni dell’uomo che ama, che peregrinano dentro le stagioni dell’anima per sedimentarsi nell’attimo che fugge. Tutti noi stranieri. Tutti noi migranti. «Non siamo certo i primi perché accade da millenni, dalla notte verso il giorno, dal freddo verso il caldo, per il cibo e per la pace, per i figli, per la specie, per sopravvivere» (Migrazioni).

«Guardo fisso avanti il filo e sono in bilico nelle insidie di ogni cambiamento, tra le forze che sempre mi dividono: tradizione e tradimento» (Tradizione e tradimento). È un invito al cambiamento questo album di Fabi, un invito a gettarsi a capofitto dentro una storia che abbiamo le forze di cambiare, una storia in cui poter recuperare il movimento della vita, la bellezza di guardarsi amandosi, la luce che scende «da Colui che mi ha regalato un movimento, allontanandomi da qualcosa e avvicinandomi a qualcos’altro, avvicinandomi a qualcuno e allontanandomi da qualcun altro». «Basta avere una memoria e una prospettiva a prescindere dal tempo» (A prescindere da me).

«L’attimo dopo, in un salto, noi eravamo insieme nel blu» (Nel blu). Un tuffo, tutti insieme, nella vita questo album di Fabi, attraverso la musica, le parole e il canto, attraverso una discesa nell’Infinito che siamo, attraverso sogni e desideri da carezzare con decisione. «In regalo una mappa per scappare sulla luna» (Prima della tempesta).