La Chiesa ha scelto per ricordarlo il giorno della Cresima, sacramento che il futuro Beato scelse di ricevere a 35 anni a conferma consapevole della solidità della propria fede, perché Rosario Livatino già da giudice era così: “Un uomo che non aveva paura della propria fede né di portarla all’interno del suo lavoro, un uomo coerente che fino alla fine non ha giudicato, un esempio di accoglienza e perdono”, lo definisce parlando con Vatican News la dottoressa Stefania Mussio, direttrice del carcere di Pavia che qualche tempo fa ha accolto tra le sue mura la reliquia protagonista da quasi un anno di una speciale peregrinatio attraverso l’Italia, promossa dalla diocesi di Agrigento, che ha toccato anche alcuni istituti di pena. Contemporaneamente a Pavia veniva anche allestita la mostra “Sub Tutela Dei” dedicata al giudice ragazzino, anch’essa itinerante.
Uno degli esecutori materiali dell’omicidio a Pavia
Ma la giornata dei detenuti di Pavia è stata resa ancora più speciale dalla presenza di Paolo Amico, uno degli esecutori materiali dell’assassinio del Beato, che attualmente sta scontando l’ergastolo nella casa di reclusione di Milano Opera, ma che soprattutto è protagonista del proprio percorso di recupero e redenzione. Amico ha voluto essere presente per rendere omaggio al giudice e per dare ai detenuti di Pavia la propria testimonianza di vita: “Già quando in una comunità arriva la presenza di un Santo nulla è più come prima, Livatino ha lasciato in carcere un clima di raccoglimento, silenzio e commozione; ma la testimonianza di Paolo è stata un messaggio fortissimo di conversione, del bene che riesce sempre a vincere sul male anche quando non sembra esserci più speranza”, racconta a Vatican News il cappellano della struttura, don Dario Crotti, che al termine dell’Eucaristia gli ha lasciato la parola.
Credere nel carcere come luogo di speranza
Questa bella storia di redenzione fa emergere l’urgenza di sottrarre il carcere come istituzione al rango di periferia marginale della società: “Come scrive Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium, non c’è peggior discriminazione per i poveri del fatto che nessuno si occupi di loro dal punto di vista spirituale”, ricorda ancora don Crotti, raccontando come la testimonianza di Paolo Amico sia stata un “pugno nello stomaco” per tutti i presenti e come abbia colpito soprattutto i detenuti che hanno vissuto una storia simile: “Lui si sente un uomo nuovo e questo si percepisce – aggiunge il cappellano – la sua storia è un’enorme successo anche del carcere che sa attuare una pena davvero rieducativa ed è un monito per tutti noi cappellani: chi incontra Cristo risorto, ovunque questo accada, può risorgere”. Una storia che dimostra come anche in carcere il male si possa sciogliere, perché, come diceva Paolo VI: “Il nostro tempo non ha bisogno di maestri, bensì di testimoni”, conclude don Dario.
Portare un giudice Beato tra i detenuti
La direttrice dell’Istituto di pena di Pavia torna, poi, sulla presenza della reliquia del Beato Livatino in carcere: “La fede è un diritto che va tutelato e questo vale anche per chi vive in detenzione – spiega – penso sia stato importante portare la testimonianza di un sacrificio estremo come quello della vita in nome della giustizia, tra i detenuti per i quali la figura del giudice è sì una figura familiare, ma spesso è anche una figura di cui non hanno un grande rispetto”. La dott.ssa Mussio sei anni fa, quando era direttrice a Sondrio, ha ricevuto un riconoscimento speciale dal Premio internazionale intitolato al giudice, che andò a ritirare a Catania: “Un’esperienza bellissima ed emozionante”, come emozionante è stato per lei conoscere Paolo Amico, all’epoca in cui era detenuto nella sezione Alta Sicurezza di Voghera dove lei era direttrice: “Aveva già iniziato il suo percorso di recupero, era impegnato, aveva obiettivi precisi ed era seguito da ottime educatrici – ricorda – io ne ho solo deciso quella che in gergo si chiama ‘declassificazione’, cioè passando dal regime di alta sicurezza a quello di media sicurezza, ha avuto la possibilità di uscire per lavorare”.
Cambiare è davvero possibile
Ma cosa, di quello che si fa in carcere, soprattutto tra le attività trattamentali proposte, è capace davvero di innescare un cambiamento nell’uomo? “Bisogna mantenere distinti due elementi – continua la direttrice – uno è la sfera personale, che attiene ai rapporti familiari e a quelli nuovi che si instaurano in istituto; l’altro riguarda le opportunità di studio e lavoro che in carcere vengono offerte. Poi, se a questo si aggiunge il disconoscimento totale del proprio passato si è fatto un passo in più”. Quel passo in più che si leggeva giorni fa sul volto del detenuto di Opera, raccolto davanti alla camicia insanguinata di Livatino: “È stato molto toccante quando Paolo ha ricordato lo sguardo del giudice – ha concluso la direttrice – lui è assolutamente convinto e consapevole di essere stato perdonato e questo più di tutto è un segnale della presenza ancora viva del Beato tra noi”.