Sarebbe stato difficile non avere un’educazione religiosa, venendo su con mia nonna. Non ho scritto cattolica, e neppure cristiana: religiosa è il termine che avrebbe usato lei e piace molto anche a me, non esclude, non barrica. Delimita senza respingere. Ho avuto un’educazione religiosa: questa sì è una frase che mi rispecchia, anche nel racconto di come sono scivolata via da quell’educazione e di come ancora dice di me mentre la incontro in altre forme e dentro altri specchi. Credo che tutto sia cominciato con le lucertole e con i gatti. Sì, sono loro l’origine.
Venivano sussurrate nel cortile davanti casa di nonna favole di bambini crudeli che li tormentavano, e in risposta io e i miei amici decidemmo di creare un club animalista. Animalista era una parola esotica, fui io a tirarla fuori, era il tipo di parola che rimane impressa dopo la lettura di una rubrica di Topolino, una di quelle di cui capisci il significato senza chiedere ai grandi, senza sbirciare su dizionario, ed era perfetta per noi, bambini convinti che gli animali avessero un’anima. Mia nonna detestava sia i gatti sia le lucertole, i primi le rovinavano le piante cui teneva tantissimo, per le seconde provava quell’indifferenza mista al ribrezzo che le signore di un’altra generazione avevano ereditato senza mettere in discussione mai, ma non ebbe dubbi nell’allearsi con noi. Quando tornavo a casa, sporca e con le ginocchia sbucciate, le gambe graffiate, le costole non troppo integre per le molte cadute dalla bicicletta, perché ero ruzzolata nelle pozzanghere, perché mi ero persa dentro il garage dove gli adulti non volevano che giocassimo — allora, a cena, davanti alla tv che dava sempre telefilm per adolescenti che non mi sarebbe stato permesse vedere, mia nonna spostava l’attenzione e chiedeva: cos’avete fatto oggi?
Facevo le tessere del club ambientalista, le coloravo col pennarello blu e po’ con quello giallo, scrivevo i nomi dei miei amici, il mio, e non dicevo mai che erano per i gatti e per le lucertole, e per quei nemici immaginari, i bambini crudeli che non pensavano che gli animali avessero l’anima. Mia nonna metteva a tavola “la pietanza”, una sorta di consommé in cui carote, patate e cipolle in pezzi grossi si spartivano il brodo con foglie di verdura selvatica e una spolverata di parmigiano. Non c’era carne in quel piatto, e a me sembrava di mangiare il giardino. Aveva un buon sapore.
C’erano diversi tipi di persone da cui mi tenevo alla larga: quelli che sgridavano i cani con troppa veemenza, quelli che predicavano che chi amava gli animali era malato perché li preferiva alle persone, quelli che se indicavi la lucertola guardavano il muretto e non capivano di cosa stessi parlando. Mia nonna non apparteneva a nessuno di loro.
Le tessere per il club animalista erano sei. Una volta finite, mi inginocchiai con nonna per le preghiere serali, le mie preferite erano quelle in dialetto, “se è pi mali nesci bene”, tutto ciò che viene fatto per il male può essere trasformato in bene: enormi lucertole sorridenti uscivano da cave di pietra, mentre deliziosi gattoni dal pelo soffice si stiracchiavano al sole. Erano sogni, visioni, niente più che lampi: una manifestazione della bontà e della bellezza. Una manifestazione religiosa. Anni dopo, quando il club animalista era sciolto da un pezzo e tutti noi andavamo già all’università, una ex bambina del cortile di nonna, mia coetanea, morì all’improvviso. Non ci frequentavamo da tempo, ma l’affetto di quei lunghi pomeriggi era rimasto e si era moltiplicato nella distanza. Il dolore di sua madre, di sua nonna, di sua sorella mi si impresse ghiacciato nelle ossa, qualcosa che non riuscivo a dire, uno sgarbo che la vita ci aveva fatto senza preavviso, solo per inquinare la purezza di quei ricordi. Avevamo fatto un pezzo di strada insieme e ci aveva accomunato la volontà di difendere la vita da attacchi crudeli o indifferenti — la sua mancanza apriva incubi, paure e baratri, e una nuova rabbia verso ciò che sentivo ingiusto. Ma in un altro passato io e lei eravamo state religiose in un mondo di creature impossibile e riti in dialetto, in cui la campagna, le nostre nonne e tutto ciò che ci circondava ci avevano parlato, e a noi era venuto naturale unire i mondi che conoscevamo e scambiarli per uno soltanto.
(fonte Vatican news)