Ritorno a Lampedusa per non far morire una speranza o semplicemente per la memoria dei propri cari morti in mare. E per dare loro un nome e una tomba. Da lunedì scorso il Comitato 3 ottobre, in occasione della giornata nazionale della memoria e dell’accoglienza, propone ogni anno, 11 anni dopo la tragedia avvenuta nelle acque dell’isola divenuta simbolo delle migrazioni, gli eventi del progetto “Protect people not borders”.
Laboratori per studenti da tutta Europa con esperti delle principali organizzazioni umanitarie internazionali, dibattiti con politici, uomini di fede e cultura, per chiedere al Parlamento europeo una direttiva per il riconoscimento dei morti. A partire dal 18 aprile 2015, il Comitato 3 ottobre è infatti impegnato regolarmente nel tentativo di dare un nome alle numerose vittime delle stragi in mare ancora senza nome. L’attività avviene grazie a un protocollo siglato tra il Comitato, il Commissario Straordinario per le Persone Scomparse e l’Istituto Labanof, guidato da Cristina Cattaneo incrociando i dati post-mortem e quelli ante-mortem. Si prova così a dare un’identità e una dignità ai tanti corpi senza vita.
Di ogni corpo recuperato in mare viene analizzato il Dna, gli occhi e denti. Sul tema chiave del riconoscimento è dedicato oggi il convegno internazionale “Sinergie per il riconoscimento delle persone migranti scomparse nel Mediterraneo cui parteciperanno tra gli altri la stessa Cattaneo, il Procuratore capo della Repubblica di Gela Salvatore Vella ed esperti delle principali organizzazioni umanitarie internazionali. Tema attuale, visto che per la Fondazione Ismu oltre 30 mila migranti hanno perso la vita nel Mediterraneo negli ultimi 10 anni e 1.452 sono i morti e i dispersi nel 2024. L’obiezione che sia meglio dedicarsi ai vivi più che ai morti non tiene conto delle sofferenze dei famigliari e delle ricadute giuridiche che tengono sospese le vite dichi resta. Per capire l’importanza del riconoscimento occorre andare nelle case di chi ha perso i propri cari il 3 e l’11 ottobre sempre al largo di Lampedusa. È quello, meno noto, in cui si sono perse le quattro figlie di due, cinque, sette e dieci anni di Wahid Hasan Yousef, 62 enne cardiochirurgo curdo siriano. La foto delle piccole appesa al centro della parete del soggiorno dell’appartamento di Duisburg, in Germania, dove abita da cinque anni con la moglie, porta sempre la memoria nel Mediterraneo, davanti a Lampedusa, al dolore incurabile del naufragio del 10 ottobre 2013, la “strage dei bambini”. Si contarono 268 dispersi e 26 morti. Tra loro 60 bambini. Yousef e la moglie si salvarono. e si ritrovarono in Svizzera, dove hanno vissuto sette anni e hanno avuto altre due figlie.
«Se non fosse per loro – spiega – che chiedono sempre delle sorelle, sarei già morto di dolore. Vivo per loro». La moglie non parla con nessuno della tragedia dopo anni di cure e di farmaci. Appena iniziamo a parlare si alza ed esce dalla stanza Solo lo scorso anno si è recata a Lampedusa con il marito, quest’anno è tornata ma il dolore è intollerabile. Yousef l’ha conosciuta in Libia, dove lavorava e hanno messo al mondo le quattro bambine. «Ma la situazione è precipitata e non potevamo più restare, soprattutto dopo la morte di Gheddafi le milizie avevano fatto precipitare il paese nel caos con rapine, stupri, omicidi. Abbiamo chiesto i visti per la Tunisia, il Marocco, l’Egitto. Ma le ambasciate non volevano i siriani e le frontiere terrestri erano chiuse. L’unica via di uscita era prendere una barca. Volevo salvare le mie figlie, invece le ho perdute». Yousef ripercorre quel terribile giorno. «Sulla barca eravamo 400 siriani e 100 palestinesi. Ci attaccò una motovedetta libica, spararono molte raffiche di mitra per fermare l’imbarcazione che ferirono tre persone e danneggiarono lo scafo facendogli imbarcare acqua». Il tono della voce si alza. «Aspettammo inutilmente i soccorsi dalle 12 fino alle 17.07, quando la barca si capovolse e affondò in acque maltesi, poco distante da Lampedusa. Nel buio urlavo disperatamente il nome di mia moglie e delle mie figlie senza risposta».
Yousef si salvò aggrappandosi a una signora che indossava un giubbotto di salvataggio. «Dopo tre ore mi accorsi che era morta». Un processo ha riconosciuto due anni fa la colpevolezza di due dirigenti della Guardia costiera e della Marina militare, ma i reati sono stati considerati prescritti. «Lancio un appello ai governi europei affinché incentivino la pace e fermino le guerre a causa delle quali molti partono e trovano la morte in mare. Sono esseri umani che dovevano e potevano essere salvati. E mi rivolgo all’Italia e all’Europa chiedendo che si recuperino i corpi. Noi non abbiamo mai potuto rivedere quelli delle nostre figlie, vorremmo avere un posto dove piangerle Ho sempre la speranza di rivederle, metto ogni tanto i loro nomi e le foto su Facebook».Yousef ha incontrato anche papa Francesco. «È l’unico a ricordare la tragedia dei migranti in mare instancabilmente, i governi dovrebbero ascoltarlo». Lo sguardo torna alla foto delle quattro bambine per sempre sorridenti, i capelli pettinati con fermagli e cerchietti. In queste ore Yussef e la moglie sono a Lampedusa per sentirle più vicine. A Giessen, alle porte di Francoforte, vive con la seconda moglie e 5 figli Mehari. 47 anni, eritreo. Il bilancio del naufragio del 3 ottobre 2013 fu di 368 morti, tra cui donne e bambini. Lui ha perso moglie e tre figli, tra cui il piccolo Esrom, cinque anni. Gli hanno restituito la sua macchinina rossa corrosa dal sale. «L’hanno trovata in tasca a Esrom -racconta -, l’aveva trovata in un mucchio di giochi nel campo dove viveva con la mamma. Poi si sono spostati per raggiungere la Norvegia attraverso Sudan e Libia e quando la situazione era diventata pericolosa e si sono imbarcati sulla nave maledetta».
Merhari era prigioniero in Eritrea per diserzione. Quando ha saputo del disastro è riuscito a spostarsi in Sudan con altri due figli. L’uomo è arrivato in Italia tre anni dopo ed è riuscito a far riconoscere i suoi cari. Gli hanno raccontato che accanto a Esrom c’era una donna incinta che urlava e tremava. «Quando il barcone si rovesciò. lui perse la presa del vestito di sua madre. È morto con la macchinina rossa in tasca». I figli e le moglie sono sepolti in posti diversi in Sicilia. «Ma almeno ho una tomba su cui piangere i miei cari. A volte torno indietro nel tempo, quando ho fatto il test del Dna ho avuto uno stress forte. Ma son contento di averlo fatto».
Cosa può dire a chi ha perso una persona sulle rotte migratorie? «Ricordo la sofferenza di quei giorni i n cui cercavo una risposta sulla sorte dei miei cari. Non d evi perdere la speranza, ma c’è un momento in cui devi decidere di andare avanti».
Samara ha deciso di andare avanti qualche anno dopo il 3 ottobre. Ha 37 anni e viene da Asmara come suo marito Daniel, che aveva 40 anni quando è scomparso il 3 ottobre 2013. Quando ha saputo dopo molti mesi del naufragio la loro bambina aveva pochi mesi, Poi è fuggita in Sudan e in Egitto e nel 2017 è entrata in Libia, in uno dei lager di Bani Walid. Dal 2018 vive in Belgio, nei pressi di Anversa, con la prima figlia e una seconda avuta dal nuovo compagno. In questi giorni è venuta per la prima volta a Lampedusa per prendere con il tampone il Dna della bambina e trovare il luogo dove è stato sepolto Daniel. «Mi hanno girato una intervista al presidente del Comitato 3 ottobre Tareke Berhane in cui spiegava di andare sull’isola in questi giorni per identificarli. Faranno il tampone alla bambina e verrà confrontato con tutti e 368 i corpi e poi si scoprirà dove è sepolto. Mia figlia ha sempre sentito parlare del padre, ma non abbiamo le prove della sua morte. Ora lei potrà trovare la pace. Vogliamo conoscere la verità. Lo devo anche alla madre di Daniel, morta a giugno e che ha sempre lottato per sapere che fine avesse fatto suo figlio».Sul porto nuovo domani verrà inaugurato da Gariwo il Giardino dei giusti con i nomi di Alex Langer e dei pescatori di Lampedusa, l’isola delle tante storie perdute in cerca di giustizia per mandare avanti le vite di chi resta.