di Francesco Polizzotti
“Sogno Olimpico” è un’espressione che evoca un’ampia gamma di emozioni e aspirazioni. Rappresenta l’apice del successo sportivo, un traguardo ambito da atleti di tutto il mondo. Ma cosa significa concretamente questo sogno? Le Olimpiadi sono molto più di una semplice competizione sportiva. Sono un evento che unisce culture, nazioni e persone, promuovendo i valori dell’amicizia, del rispetto e dell’eccellenza. Partecipare ai Giochi Olimpici è un onore, un’esperienza che segna la vita di un atleta. Ogni atleta ha un proprio “Sogno Olimpico”. Potrebbe essere quello di salire sul podio più alto, di stabilire un nuovo record mondiale, o semplicemente di rappresentare il proprio paese ai Giochi.
Durante le gare di Parigi 2024 non sono mancate forti discussioni, con accese polemiche sull’inaugurazione dei giochi, sul messaggio universale ed inclusivo offerto al mondo, sulla qualità delle performance dei singoli atleti e sulle singole gare, ancora una volta divisi tra spartani e ateniesi, tra chi fonda la partecipazione degli atleti sui valori rigidi dell’onore e del rispetto e chi si richiama al motto più pacifico della partecipazione come elemento qualificante ogni rassegna olimpionica.
Il “Sogno Olimpico” non è solo un’aspirazione individuale, ma anche un simbolo di speranza e di unione. I Giochi Olimpici hanno il potere di ispirare le persone a superare le proprie difficoltà e a credere in se stesse. Ogni sportivo cresce ispirandosi ad un proprio modello, una sorta di icona a cui si guarda nei momenti difficili per ritrovare la spinta e la determinazione necessari per proseguire e raggiungere il proprio sogno. Da piccoli tutti abbiamo spesso richiamato le nostre gesta sportive a campioni del calcio o del volley, sia reali che immaginari. Si pensi ai pomeriggi trascorsi seguendo la serie cartoon di Holly e Bengji o Mila e Shiro, cercando poi di emularne il gioco e la passione, sia pure con le dovute sicurezze.
Le Olimpiadi restano così un evento (l’evento) importante per ogni sportivo perchè da la carica giusta ad intere generazioni che lo sport è una cosa da coltivare e che il messaggio intrinseco alle gare sportive resta quello della fratellanza e del fair play sportivo.
Le immagini forti di atleti in difficoltà, aiutati da altri compagni di gara a concludere la prova, cosi’ come gli abbracci tra atleti i cui paesi vivono da anni in tensione.
Due di queste immagini ad oggi stanno caratterizzando le Olimpiadi, insieme a tante altre. La velocista Kimia Yousofi arrivata ultima nella sua gara, staccatissima con un modesto 13″42 nella sua batteria dei 100 metri, dopo il traguardo ha pensato a una cosa sola: si è staccata il pettorale, lo ha girato a favore di telecamere e ha mostrato che vi erano tre scritte a penna in inglese con tre colori, quelli dell’Afghanistan: una in nero con la parola “Education” (“Istruzione”) poi una al centro in verde (“Sport”), infine una in rosso in basso con la frase “Our rights” (“I nostri diritti”). Ha mostrato un messaggio in mondovisione: “Mi batto per le donne del mio Paese a cui è stata tolta la possibilità di decidere della propria vita”. Sappiamo quanto questa atleta esponendosi in questo modo si sia invisa il regime talebano. Chi si ricorderà di lei finite le olimpiadi? Lo scatto degli atleti della Corea del Nord con i colleghi della Corea del Sud. Due paesi divisi dal 38° parallelo per volere di altre potenze pur di non riconoscere al popolo coreano la possibilità di vivere come unica nazione.
Il bisogno insaziabile di avere atleti vincenti, dotati di tutte le tecnologie più avanzate per la resa finale strettamente finalizzata alla conquista di una medaglia, continua ad avere una certa presa nelle federazioni. Dimentichiamo invece la potenza delle Olimpiadi soprattutto in risposta alla mancanza e al riconoscimento dei diritti umani o al sogno di chi ad esempio come Tommie Smith vinse la corsa del 200 metri a Citta del Messico nel 1968 senza scarpe e con le calze. In quella stessa circostanza insieme al compagno afroamericano John Carlos (terzo) con un guanto nero rispettivamente infilato nella mano destra del vincitore, e in quella sinistra del compagno, quando salirono le note dell’inno nazionale statunitense i due alzarono il pugno abbassando contestualmente la testa. Il “black power” era sbarcato alle Olimpiadi. Più tardi Smith disse: “Se ho vinto sono un americano, non un nero americano. Ma se faccio qualcosa di cattivo dicono che sono un negro”. Non meno eclatante, sullo stesso podio, fu la presa di posizione solidale della medaglia d’argento, l’australiano Peter Norman, che si presentò mostrando la spilla dell’Olympic Project for Human Rights. Norman pagò a caro prezzo l’appoggio ai “colleghi” a tal punto che fu vittima di una campagna del tutto ostile in patria e la sua federazione gli impedì di partecipare alle Olimpiadi di Monaco del 1972, per vedersi riabilitato dovette aspettare gli organizzatori di Sydney 2000 che lo vollero nella loro squadra: fu comunque una vittoria parziale. Norman morì d’infarto nel 2006 e al suo funerale la bara venne sorretta proprio da Smith e da Carlos.
La storia delle Olimpiadi andrebbe insegnata in ogni scuola, in ogni federazione, in ogni ambiente formativo perchè i successi portano le medaglie ma il coraggio e la solidarietà fanno entrare nella storia.