• 21 Novembre 2024 13:53

Quotidiano di ispirazione cristiana e francescana

Ius scholae, più se ne parla meglio è

Diilsycomoro

Ago 30, 2024 #ius scholae

di Francesco Polizzotti

Dove eravamo rimasti. Lo “Ius Scholae”, è un testo di riforma sulla cittadinanza precedentemente preso in esame in Parlamento, che lega l’acquisizione della cittadinanza al compimento di un ciclo di studi.  Da anni in Italia si attende una riforma sostanziale della legge sulla cittadinanza e in queste ultime settimane il dibattito sul tentativo di riforma è tornato a far parte dell’agenda politica. Riconoscere la cittadinanza italiana ai minori che nascono e crescono nel nostro Paese rappresenta un’opportunità di uguaglianza, concedendo pari diritti a tutti quegli italiani di fatto, ma non per la legge.

Su www.Vita.it sono declinate a firma di Sara De Carli le Cinque ragioni per approvare subito lo ius scholae, da cui trae ispirazione questo articolo. Cinque ragioni su cui non abbassare l’attenzione. Se a farlo è la politica non ci sorprende. Se a farlo sarà la società civile, il mondo dell’istruzione e dell’educazione allora dobbiamo davvero preoccuparci.  Il mondo della scuola è a favore della riforma: tra studenti, docenti e genitori il 60% la approverebbe a occhi chiusi. A dirlo è un sondaggio effettuato dal portale Skuola.net che ha coinvolto 750 utenti – tra studenti, docenti e genitori – proprio nei giorni in cui si è riacceso il dibattito sul tema. Discutibile invece l’approccio proposto dal ministro all’Istruzione e al Merito Giuseppe Valditara che sostiene come gli alunni stranieri che non parlano l’italiano dovranno andare dal prossimo anno nelle classi in cui questi alunni sono più del 20%, ci sarà un insegnante specializzato che li aiuterà ad apprendere meglio l’italiano. Non si intende classi separate ma il rischio è che lo siano davvero. Per questi alunni arriverà un insegnante specializzato. A porre la questione disuguaglianze al ministro è stata nei mesi scorsi Ismahan Hassen, educatrice di seconda generazione. Con una lettera al ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara, dopo la sua proposta di tornare a un tetto per gli alunni stranieri presenti in ogni classe, ha scritto: «Se davvero l’obiettivo è quello di ridurre il numero di “stranieri” nelle classi, allora le consigliamo l’urgente modifica delle norme sulla cittadinanza, così lei sarebbe più contento e noi saremo più a nostro agio in un Paese che, finalmente e nel concreto, agisce per ridurre il numero di italiani senza cittadinanza».

Ripartiamo dai dati.

Secondo i dati dell’Anagrafe degli Studentigli alunni con cittadinanza non italiana che frequentano le scuole italiane sono pari all’15% del totale. Un dato in crescita rispetto agli anni precedenti. Per ridurre il tasso di dispersione scolastica degli studenti stranieri, e migliorare l’inclusione, un articolo (art.11) del recente DL Sport & Scuola recentemente approvato dal Parlamento introduce delle misure per il miglioramento della lingua italiana e della matematica.

Modificare la legge sulla cittadinanza, riconoscendola ai ragazzi che hanno compiuto in Italia un intero ciclo di studi. Se ne parla da anni, ma non si è mai riusciti ad approvarla. Ecco le cinque ragioni per cui non possiamo lasciare che questo sia solo uno stanco dibattito di fine estate. Per 900mila ragazzini, ma anche per noi. È importante approvare lo ius scholae perché «proprio a scuola l’individuo si forma come persona e, dunque, anche come cittadino. La consapevolezza di non avere possibilità nel nostro Paese invece di recente sta spingendo le famiglie dei più meritevoli a lasciare l’Italia, alla ricerca di luoghi in cui offrire un futuro diverso ai propri figli». Interessante nel testo di Carli, il racconto di Fabio Rocco, maestro di scuola primaria a Padova ed esperto di educazione interculturale.

C’è chi è stato insignito del titolo di Alfiere della Repubblica e indicato dal Presidente della Repubblica come “modello di buon cittadino”, ma cittadino italiano nemmeno lo è. Il più famoso è Bernard Dika, nominato alfiere nel 2016 e oggi portavoce del Presidente della Regione Toscana: «Ho vissuto per 17 anni in questo Paese senza essere riconosciuto come cittadino italiano. Periodicamente dovevo assentarmi da scuola per andare a far la fila all’Ufficio immigrazione per rinnovare il permesso di soggiorno. Io me ne vergognavo e dicevo bugie ai compagni e agli insegnanti, raccontavo per esempio di avere una visita medica», confidava in un’intervista. Basta questo flash per dire quanto sia paradossale l’idea di continuare ostinatamente a negare la cittadinanza italiana centinaia di migliaia di ragazzi che in Italia sono nati o sono arrivati da bambini, frequentando per anni la nostra scuola. Ricordando peraltro che dei 914.860 alunni con cittadinanza italiana iscritti nelle nostre scuole, ben 598.745 (il 65,4%) sono nati in Italia.

I numeri

Nell’anno scolastico 2022/23, gli alunni con cittadinanza italiana iscritti alle nostre scuole sono 914.860, pari all’11,2% degli studenti. I potenziali beneficiari dello ius scholae – immaginando che richieda di aver concluso l’intero primo ciclo del sistema di istruzione italiano, ossia fino alla terza media – secondo Tuttoscuola sarebbero circa 560mila, di cui oltre 300mila nel primo anno di applicazione e i restanti nei successivi quattro anni. Significa che sei ragazzi stranieri sui 10 che attualmente studiano nelle nostre aule scolastiche in questo modo otterrebbero la cittadinanza italiana. L’effetto sarebbe molto diverso sul territorio nazionale: 5 potenziali nuovi cittadini italiani su 6 vivono al centro e, soprattutto, al nord. Meno del 15% vive nel meridione.

Perché lo ius scholae è un passo che dobbiamo deciderci a fare, perché si tratta sostanzialmente di un bilanciamento realistico fra speranze degli uni e timori degli altri, con vantaggi per tutti? Per cinque ragioni.

1. Il dato di realtà

Le classi sono lo specchio di ciò che è l’Italia oggi. L’attuale legge sulla cittadinanza, vecchia di trent’anni, non fotografa più il Paese reale, quel Paese reale che invece incontriamo quando entriamo in una qualsiasi aula. La convivenza multiculturale e multietnica è ormai condizione strutturale del nostro essere società e della nostra economia e va affrontata in maniera strutturale, non secondo una logica emergenziale. Proprio all’interno delle scuole l’origine migratoria “si perde” o meglio “si mischia” in una miriade di tratti che si intersecano e che ridisegnano i confini mobili delle somiglianze e delle differenze. L’inclusione, l’identità, l’appartenenza, la cittadinanza infatti non passano dalla rimozione delle proprie origini, in un processo di totale assimilazione, ma attraverso l’incontro e lo stare insieme nel modo più egalitario possibile. Al momento invece viviamo la paradossale situazione per cui in classe educhiamo questi ragazzi, come tutti, alla “cittadinanza e costituzione”, pur sapendo che molti di loro non avranno né cittadinanza né diritto di voto. Per coerenza, dovremmo forse allora esentarli dalle attività che riguardano l’educazione alla cittadinanza?

2. Percezione di sé e senso di appartenenza

Fra gli studenti “con cittadinanza non italiana” (c’è stato un momento in cui il report del ministero li aveva chiamati “studenti con background migratorio”, ma la dizione è stata presto abbandonata) più del 65% è nato in Italia, vive in Italia, compie in Italia il suo intero percorso di scolarizzazione ma non può essere cittadino se non dopo i 18 anni. Ogni tanto questi ragazzini scoprono di avere qualche diritto in meno rispetto ai loro compagni di classe: non possono andare in gita all’estero con la medesima facilità dei compagni, devono assentarsi per rinnovare il permesso di soggiorno, per essere tesserato in una squadra devono sobbarcarsi una trafila più complessa dei coetanei. La mancanza della cittadinanza su persone in crescita, che stanno costruendo la propria identità, non ha solo effetti pratici negativi, ma anche conseguenze sulla maturazione del senso di appartenenza alla comunità nella quale si vive. I pedagogisti evidenziano come nella fase dell’adolescenza i ragazzi e le ragazze con cittadinanza non italiana tendano a ritornare ad aggregarsi con i coetanei in base al paese di origine: arabo con arabo, cinese con cinese… Il riconoscimento della cittadinanza, il dare loro elementi certi su cui costruire il loro senso di appartenenza e la loro identità italiana limiterebbe il rischio che possano costruire la loro identità “arroccandosi” nel perimetro della comunità d’origine e delle sue tradizioni. La cittadinanza allarga automaticamente il perimetro del dialogo. Il riconoscimento della cittadinanza permetterebbe a questi ragazzi di godere appieno di tutte le prerogative di un cittadino italiano, ma l’altro aspetto importante è proprio l’impatto sulla loro percezione di essere parte integrata della comunità, non solo a scuola ma nella società, con ricadute significative dal punto di vista della coesione sociale.

3. Le ragioni dell’economia e della competitività

La mancanza della cittadinanza non solo ostacola il senso di piena appartenenza alla comunità nella quale si sta crescendo, ma non favorisce nemmeno la possibilità di immaginare qui il proprio futuro. Una recente indagine di Save the Children su un campione di 15-16enni che vivono in Italia rileva che il 34,9% degli adolescenti di origina italiana aspira a trasferirsi all’estero, mentre fra gli adolescenti di seconda generazione ben il 58,7% pensa a un futuro fuori dall’Italia. Un dato preoccupante, che potrebbe alimentare una nuova forma di fuga di cervelli, un esodo di talenti che il Paese non può permettersi di perdere. A parte la questione “sport”, nel contesto demografico che tutti conosciamo, sono ormai numerosissimi gli studi, le  ricerche e le proiezioni che disegnano chiaramente la necessità di essere attrattivi per giovani lavoratori stranieri. Basti citare, sempre dal Meeting di Rimini, il governatore di Bankitalia quando ha detto che «per ridurre gli squilibri demografici una risposta razionale può essere l’introduzione di misure che favoriscano l’ingresso di lavoratori stranieri regolari», che «misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari costituiscono una risposta razionale sul piano economico, indipendentemente da valutazioni di altra natura» e che bisogna «rafforzare l’integrazione dei cittadini stranieri nel sistema di istruzione e nel mercato del lavoro».

4. Significa credere nella scuola

La cittadinanza significa garantire a ciascuna persona di essere quello che è, con le diversità che ognuno ha ma senza che la diversità generi disuguaglianza. Avere pienezza della cittadinanza e dei diritti fa vivere tutti da uguali, nella diversità. La cittadinanza legata al percorso scolastico non è un premio perché hai studiato, ma il riconoscimento di un percorso che hai fatto. Un percorso il cui esito non si misura in “che voto hai preso” o in “quante volte sei stato bocciato”, ma nel riconoscere che aver frequentato la scuola italiana per cinque/otto/dieci anni (o quel che sarà) non è qualcosa di indifferente, che passa senza aver lasciato un segno. Per respingere l’idea dello ius scholae il ministro Valditara ha detto che «non è tanto il numero di anni o il percorso scolastico seguito a fare la differenza, quanto la condivisione di valori, la conoscenza della lingua e la condivisione di un progetto di futuro». È esattamente questo il percorso che i ragazzi fanno a scuola, che siano di cittadinanza italiana o straniera. La scuola come nessun altro luogo è un “viaggio di cittadinanza” e una educazione alla cittadinanza. Lo ius scholae è una scelta di fiducia non solo verso i giovani che qui costruiscono il loro futuro, ma anche verso la scuola e gli insegnati.

5. Perché il Paese è pronto

Nel Paese il consenso sullo ius scholae è molto trasversale: già nel 2022, quando la proposta era in discussione in Parlamento prima di essere affondata sotto il peso dei 1.500 emendamenti presentati dalla Lega, un sondaggio di Action Aid disse che circa 6 italiani su 10 erano a favore.  A sorpresa anche il 48% degli elettori della Lega si dichiarava d’accordo, percentuale che scendeva a un 35% di tutto rispetto tra chi si dichiarava elettore di Fratelli d’Italia e saliva addirittura al 58% fra gli elettori di Forza Italia.

E per finire…

Per finire, leggete queste righe. Le ha scritte Mohan Kumar, un alunno della scuola Penny Wirton di Borgo San Lorenzo. Le trovate nel bel volume Atlante dal mondo nuovo. Voci e racconti delle Scuole Penny Wirton curato da Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi (in uscita per Il Margine il 6 settembre). Lui è nato in India ed io, nata in Italia, non avrei saputo dire meglio.

«La Costituzione è la legge fondamentale dello Stato italiano. È stata scritta dopo la Seconda guerra mondiale, che ha causato più di cinquanta milioni di morti e quindi promuove il valore della pace tra tutti i popoli della Terra. È valida dal 1° gennaio 1948, rifiuta la dittatura e sceglie la democrazia. In dittatura una sola persona comanda e il popolo obbedisce, nella democrazia invece il popolo elegge con il voto i propri rappresentanti che approvano le leggi e curano gli interessi di tutti.

La Costituzione dichiara che ogni persona ha dei diritti, per esempio alla propria salute e quindi a essere curata se sta male, a venire istruita con la scuola, a esprimere liberamente le proprie idee. Lo Stato deve rispettare e garantire i diritti della persona e non ha il potere di limitarli o abolirli secondo la propria volontà. Ogni individuo ha anche dei doveri di solidarietà nei confronti degli altri. Nessuno può seguire solo i propri interessi e tutti dobbiamo contribuire al benessere della comunità in cui viviamo.

L’Articolo 3 della Costituzione è uno dei più importanti e afferma il principio di uguaglianza secondo il quale nessuna distinzione può essere fatta tra le persone in base al sesso, alla razza, alla lingua, alla religione, alle opinioni politiche. Quindi tutti hanno gli stessi diritti e nessuno può venire discriminato perché diverso dagli altri per alcun motivo; anzi, le diversità arricchiscono la vita della comunità in cui viviamo.

Secondo il principio di uguaglianza tutti devono avere le stesse opportunità anche se hanno diverse condizioni personali e ciascuno deve poter seguire le proprie aspirazioni. Quindi chi ha maggiori difficoltà (ad esempio perché povero, perché viene da altri paesi e non conosce la lingua e non ha frequentato la scuola, perché ha una disabilità fisica), deve essere aiutato dallo Stato e dalla comunità a diventare uguale agli altri e ad avere le stesse possibilità di lavorare, di studiare, di vivere in maniera libera e dignitosa».

Quindi più se ne parla, meglio è! Lo Ius Scholae non è una proposta di parte, non prevede salvacondotti o scorciatoie. La stessa proposta di Forza Italia conferma che è possibile avanzare con trasparenza e merito un testo che vada a migliorare il benessere della società italiana, dove gli stranieri non sono un nemico da temere e dove i diritti non possono essere solo annunciati. Chi viene riconosciuto come italiano, sia pure con un patrimonio culturale differente ma aperto alla cultura del nostro paese, merita rispetto. Riconoscere un merito (considerando che il governo di Giorgia Meloni sul merito ne ha fatto un vanto) a chi vive con noi e rispetta le nostre leggi, parla fluentemente l’italiano o lo parla nelle forme apprese in contesti informali e dietro lavori svolti (pensiamo al badantato, all’edilizia, alla gestione di una piccola attività) significa renderlo partecipe delle scelte e di conseguenza delle responsabilità di tutti.

Parliamone! Non fermiamoci alle analisi…