«La sorpresa» dopo un mese di guerra in Terra Santa è per «l’enormità della violenza» scatenatasi il 7 ottobre e la «conseguente risposta», constata Fra Francesco Patton appena arrivato in Italia da Gerusalemme. «Però la tensione negli ultimi anni era crescente: legata a uno spostamento sempre più a destra del governo israeliano» afferma il custode di Terra Santa che questo pomeriggio interverrà a un convegno in Università Cattolica.
Il cardinale Pierbattista Pizzaballa ha chiesto alla Chiesa di Gerusalemme di essere perseverante nell’operare per la giustizia e per la pace. Come si vive in questi giorni in Terra Santa il «coraggio di chiedere giustizia senza spargere odio»?
Un coraggio necessario. Le beatitudini parlano degli «operatori di pace» ma anche di chi ha «fame e sete della giustizia» e dei «perseguitati» per la giustizia. Bisogna avere il coraggio di chiedere giustizia, che significa chiedere il bene per tutti e al tempo stesso evitare di spargere odio: il primo modo è evitare un linguaggio violento, che deumanizza l’altro. Questo avviene sia quando si disegnano vignette antisemite, sia quando si descrivono i palestinesi come fossero animali. Un linguaggio non violento deve rispettare la dignità della persona indipendentemente dall’etnia e dalla religione.
Questo mentre vi confrontate quotidianamente con il mistero dell’iniquità e del dolore innocente: civili inermi vittime di attacchi terroristici e di bombardamenti indiscriminati. Se la denuncia è una necessità come elaborare da questa lacerazione delle coscienze – anche di noi «spettatori» distanti – dei percorsi di riconciliazione?
Fondamentale è non diventare spettatori: il rischio è l’assuefazione che porta al cinismo. Non possiamo perdere la sensibilità per il valore e per il dolore della persona, da una parte e dall’altra. Si può anche essere accusati di essere equidistanti, ma si tratta di riconoscere dignità alla sofferenza di una e dell’altra parte, si tratta – categoria cara a papa Francesco - di essere «equivicini». Guai, anche per chi vive lontano migliaia di chilometri, ad assuefarsi alle immagini che l’informazione offre con una logica di progressivo aumento della violenza: anche questa è una forma di tossico dipendenza.
Qual è, intanto, la realtà quotidiana delle comunità cristiane, minoranze già provate. Quali le maggiori preoccupazioni?
Per i cristiani che vivono a Gaza la preoccupazione maggiore è di rimanere vivi! Per la comunità in Cisgiordania sotto l’Anp di poter vivere in pace dentro una società a maggioranza musulmana e di poter vivere con dignità del proprio lavoro. A Betlemme, ad esempio, tutti vivono dell’indotto del pellegrinaggio ma in questo momento la città è vuota. È una preoccupazione economica molto concreta: portare a casa il pane, pagare la retta scolastica, garantirsi una assistenza sanitaria. C’è poi la comunità cristiana in Israele: la preoccupazione è di sentirsi in qualche modo rifiutati dalla società israeliana e alcuni, anche nella benestante Galilea, affermano di voler partire. In Israele vive poi una grande comunità di cristiani lavoratori migranti: alcuni sono morti nell’attacco terroristico del 7 ottobre, alcuni figli di migranti sono nell’esercito, e alcuni hanno perso il lavoro e cercano di tornare nella loro patria. Una situazione difficile con problemi diversi: sopravvivenza fisica, sopravvivenza economica, sentirsi un corpo estraneo a casa propria.
Molti vorrebbero potervi aiutare: come?
In questo momento, di più forte sensibilità, un eventuale aiuto economico verrà gestito in loco con l’aiuto della Caritas e il coordinamento del patriarca e dell’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa. Un aiuto da spendere poi nel tempo a venire. Un altro aiuto, appena la situazione si calmerà, sarà di tornare in Terra santa: i pellegrini, lo ribadisco, portano ai cristiani locali che sono una minoranza la consapevolezza di far parte della grande famiglia che è la Chiesa cattolica, e danno loro la possibilità di vivere del proprio lavoro.
San Francesco nel testamento scrive: «Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: “Il Signore ti dia pace”». Su questo tema lei interverrà, questo giovedì 9 novembre, all’Università Cattolica. Come annunciare la pace mentre attorno a voi si combatte con efferata violenza?
Quando Francesco nel 1217 mandò i primi frati in missione, compresi i quattro che arrivarono in Terra santa, disse loro: «La pace che voi annunciate con la bocca, prima dovete averla nel cuore». Quando nella regola scriverà il capitolo legato alla missione dirà che il primo modo di essere presenti in un territorio dove la maggioranza è di altre religioni è di «non fare liti o dispute, ma di mettersi al servizio di tutti per amore di Dio, confessando di essere cristiani». Allora, come oggi, per annunciare la pace dobbiamo tenere il cuore libero dall’odio, dalla rabbia, dalla paura, dall’aggressività: il linguaggio, gli atteggiamenti sono fondamentali. San Francesco in tutti i suoi scritti non usa mai la parola nemico per definire l’altro ma scrive che il solo nemico che abbiamo è il nostro io egoista e chiama fratelli i briganti di Monte Casale capovolgendo l’”homo homini lupus” ma questo lo fonda teologicamente: abbiamo un solo Padre in cielo, Gesù Cristo sulla croce è morto per riconciliare tutta l’umanità, lo Spirito soffia su questa umanità divisa perché diventi un solo popolo. Dobbiamo lavorare molto su noi stessi ma la pace va annunciata proprio dove il contesto è violento fino al coraggio del martirio. Quando nel 2002 la chiesa della Natività fu presa d’assalto dai palestinesi i frati, rischiando la vita, evitarono un massacro. Chi vuole lavorare per la pace non deve essere preoccupato della propria incolumità, ma deve essere preoccupato per il bene e la dignità di tutti.
«Fratelli tutti» è un altro motto francescano: fratelli universali drammaticamente chiamati ad essere segno. Una fratellanza che riguarda tutti i figli di Abramo, che è trasversale alle tre grandi religioni abramitiche?
Una fraternità che riguarda tutti i figli di Abramo e non solo. È lo sguardo che deve cambiare: non è facile riconoscere un fratello in quello che è l’assassino ma diventa necessario, è lo specifico cristiano. Gesù in croce invoca il Padre perché perdoni chi lo sta ammazzando. Ricordo lo splendido il testamento spirituale dell’abate di Tibhirine che, ipotizzando che un giorno sarà proprio un jihadsta a toglierli la vita, lo saluta come «fratello». Questo è sublimemente cristiano, non tutti ci arrivano, ma lo specifico di noi cristiani è di seminare perdono, riconciliazione e fraternità in un terreno ostile.
E cosa si può sperare in questo momento per Gerusalemme, la Città santa? Come potrebbe riavviarsi un processo di pace fra Palestina e Israele?
Per Gerusalemme speriamo si manifesti la santità di Dio che si traduca, come nelle visioni profetiche, in una realtà di pace. In termini molto concreti si può sperare che la componente ebraica, quella cristiana e quella musulmana non gettino benzina sul fuoco. Noi come comunità cristiana ripetiamo continuamente questo messaggio di riconciliazione e di pace. Speriamo che anche le altre due componenti si rendano conto che è più realistico volere la pace che qualcos’altro. Quanto al processo di pace, si è a un momento di svolta: o si dà finalmente una soluzione alla questione palestinese o non si risolverà il problema radendo al suolo Gaza perché le ideologie non si estirpano facilmente, bisogna superare anche le cause che le alimentano. Si spera che da tanto dolore si possa almeno riavviare in maniera seria un processo che porti a un riconoscimento di una realtà palestinese autonoma e libera. Non sta a me dire quale formula politica adottare, ma ho visto che anche gli Stati Uniti stanno riproponendo la formula dei due stati per i due popoli: spero si ritorni a questa ipotesi, ma fissando tempi certi.
Per concludere padre Patton, San Francesco nel 1219 a Damietta incontrò il sultano: chi vorrebbe incontrare oggi Francesco in Palestina e Israele. Quale messaggio, nella povertà disarmata, pensa che lancerebbe oggi?
Francesco oggi vorrebbe incontrare entrambe le parti: i leader in Israele e i leader in Palestina e vorrebbe fare il possibile perché si incontrassero tra di loro. Francesco ci viene tramandato come colui che incontra il sultano a rischio della propria testa e lo fa con lo stile pacifico che sottolineavo prima. Credo che non lancerebbe messaggi ma ricorderebbe agli uni e agli altri il loro essere creature, figli e immagine di Dio. Ricorderebbe agli uni e agli altri la loro dignità e la dignità di chi gli sta di fronte. Francesco farebbe capire che comprende la sofferenza del proprio interlocutore e che, allo stesso tempo, vorrebbe che il proprio interlocutore comprendesse la sofferenza dell’altro.
(fonte Avvenire)