di Romano Fina – Cantava Gaber negli anni 70: “La libertà è partecipazione”.
Eppure il nostro bel paese sembra aver dimenticato il valore della democrazia.
O, forse, ne ha tanto esaltato la forza e l’importanza da non volersene più servire per timore reverenziale…
Mi riferisco alle ultime elezioni farsa che si sono tenute nello stivale. Non voglio toccare l’argomento Referendum, per il quale avrebbe votato un quinto degli aventi diritto…
Sto parlando delle Amministrative che hanno visto un’affluenza del 55 per cento. La più bassa nella storia della Repubblica: quasi un italiano su due non è andato a votare.
I conti della serva: per esempio in Sicilia nei comuni con più di diecimila abitanti il Sindaco viene eletto al raggiungimento del 40% delle preferenze. Se facciamo due conti il 40% del 55% è il 22% dei votanti. Il che significa che con un’affluenza così bassa, il 22% degli elettori di una città può eleggere il Sindaco, e di conseguenza, bastano una manciata di voti per decidere il destino politico di una
città per un quinquennio. Se si fa il calcolo con i ballottaggi, il dato potrebbe essere ancora visto al ribasso.
La cara vecchia democrazia ormai è diventata un’oligarchia, non un governo del popolo, ma un governo di pochi, di quei pochi che varcano la soglia dei seggi elettorali.
Di chi è la colpa? Di quel 22% che ha eletto un sindaco? O di quel 45% che ha preferito restare a casa, per protesta, per passare una giornata al mare o chissà per quale altra ragione?
Nè degli uni, nè degli altri…
Se, adesso, trasferiamo questa riflessione alle elezioni politiche, il quadro che si delinea è – se possibile – ancor più preoccupante: se, infatti, dovesse perdurare il trend degli ultimi dieci anni, i numeri sarebbero notevolmente inferiori alle elezioni amministrative e ciò significherebbe che un pugno di voti potrebbe decidere la formazione del nuovo Parlamento e, di conseguenza, del nuovo Governo.
In un periodo così delicato, in cui assistiamo ad un uso – seppur parzialmente giustificato – di strumenti e risoluzioni poco democratiche e rappresentative della reale volontà del popolo, giustificate da varie “situazioni emergenziali”, è secondo voi opportuno percorrere questa via così pericolosa? E, soprattutto, “cui prodest?”, a chi giova questo uso sempre più esiguo del diritto di voto che i nostri padri hanno guadagnato con il sangue?
A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina – affermava nel secolo scorso uno dei politici più discussi e più apprezzati della Prima Repubblica. Riuscire ad ottenere i risultati sperati, relegando le manifestazioni di dissenso crescente all’astensionismo è un operazione subdola e molto pericolosa per la democrazia.
Quale la cura? Difficile dirlo. Per adesso si dovrebbe intanto prendere coscienza del problema e trovare un catalizzatore del dissenso che possa essere più efficace dell’astensione dal voto, qualcosa capace di “costringere” i politici che attualmente dormono sugli allori del “mi va bene così, tanto la poltrona la guadagno lo stesso” a comprendere che non possono continuare a non fare gli interessi degli italiani e che il vento sta cambiando.