• 22 Novembre 2024 0:08

Quotidiano di ispirazione cristiana e francescana

Don Pino Puglisi, una morte impartita per intimidire la Chiesa

La sera del 15 settembre 1993 padre Pino Puglisi, per tutti don Pino, stava tornando a casa sua, in piazzale Anita Garibaldi, a Brancaccio, uno dei vari quartieri popolari e difficili di Palermo. Il sacerdote, detto “3P”, viene affiancato da due uomini: Gaspare Spatuzza e Salvatore Grigoli, gregari di Giuseppe Graviano, il boss stragista. “Padre, questa è una rapina”, gli disse Spatuzza, cercando di strappargli il borsello che il sacerdote stringeva. Puglisi reagì senza scomporsi: “Lo avevo capito”. E sorrise al suo aguzzino. Una reazione spontanea, inaspettata che più avanti, per anni, tormenterà di sensi di colpa Gaspare Spatuzza al punto da essere determinante nella sua decisione di collaborare con la giustizia nel 2008. Ma torniamo agli ultimi attimi di Puglisi. Dopo quel rapido scambio di battute Grigoli (anche lui collaborerà con la giustizia) puntò alla testa del sacerdote e fece fuoco. Un solo proiettile per inscenare una rapina finita male. Ma così non era. Puglisi venne eliminato perché questo era l’ordine di Graviano, il capo mafia di Brancaccio (oggi detenuto al 41 bis). Graviano era infastidito dall’opera ecclesiastica condotta da Puglisi. Il sacerdote, infatti, cercava di strappare i giovani di Brancaccio dalla strada, e quindi dal giogo mafioso. Così facendo toglieva manovalanza al mandamento offrendo ai ragazzi una nuova opportunità di vita con principi sani e solidarietà. Una rivoluzione silenziosa che Graviano non poteva tollerare. Ma potrebbe esserci altro.

Un anno fa, in occasione del 30° anniversario del delitto, il direttore di ANTIMAFIADuemila Giorgio Bongiovanni ha scritto un editoriale sull’omicidio che vogliamo riproporre ai nostri lettori. Pensiamo infatti che l’ordine di assassinare “3P” vada ben oltre l’opera sociale di Puglisi a Brancaccio. Analizzando il contesto storico del tempo – il 1993 è l’anno della trattativa Stato-mafia, delle stragi in continente alle basiliche ed è anche l’anno della storica scomunica alla mafia pronunciata da papa Wojtyla alla Valle dei Templi – è plausibile ritenere che con l’uccisione del sacerdote, Cosa nostra, di cui Giuseppe Graviano era ed è tuttora massimo rappresentante, abbia voluto lanciare un’intimidazione al Vaticano. In questo senso, il direttore Bongiovanni realizza una ricostruzione di quel periodo storico concitato, ipotizzando la presenza di una precisa strategia del gotha di Cosa nostra nel delitto di Puglisi.

Due giorni fa era il giorno della memoria di Padre Pino Puglisi, oggi beato, ucciso a colpi di pistola nel giorno del suo compleanno, mentre stava facendo rientro a casa. Un uomo di fede, rivoluzionario, capace di stringere a sé un’intera comunità, divenuto martire, che ha messo la causa per cui lottava al di sopra della propria stessa vita.
È stato ucciso a Brancaccio, quartiere di Palermo in cui, è noto, da decenni regna la famiglia dei Graviano.
Si sono celebrati processi sull’omicidio del prete missionario. Grazie anche al contributo dato dai suoi stessi killer, poi divenuti collaboratori di giustizia, è stato possibile condannare mandanti ed esecutori.
Ma quel delitto eccellente di un uomo di Chiesa nasconde, forse, un altro mistero, perché avviene in un momento storico preciso in cui Cosa nostra era in piena campagna stragista.
Il 1993, infatti, è l’anno delle bombe in Continente in cui si alza la posta in quel dialogo con lo Stato che era stato avviato negli anni precedenti già con le stragi di Capaci e via d’Amelio.
E non è affatto peregrina l’ipotesi che la morte del sacerdote di Brancaccio possa essere stato un messaggio diretto al Vaticano ed in particolare al Papa, Giovanni Paolo II.
Ma procediamo con ordine.
Perché per comprendere è necessario fare un passo indietro nella storia ed osservare quelle che erano le relazioni pericolose tra Chiesa e mafia.
Un legame forte che va oltre la semplice connivenza o omertà e che vede il suo lato più oscuro nei rapporti tra lo IOR e i cosiddetti sistemi criminali.
Pensiamo al ventennio della gestione a dire poco discussa, dal 1971 al 1989, del cardinale statunitense Paul Casimir Marcinkus, detto anche il “Banchiere di Dio”, molto vicino a Giovanni Paolo II.

All’inizio degli anni Ottanta il suo nome fu collegato a scandali come quello della loggia P2 ed il crack del Banco Ambrosiano del 1982 in una serie di incroci che vedeva come ulteriori protagonisti personaggi come il “venerabile maestro” Licio Gelli e Michele Sindona (ucciso in carcere con una tazzina di caffè al cianuro).
Quest’ultimo, in rapporti con Giulio Andreotti e Papa Paolo VI, riciclava il denaro della mafia nella banca del Vaticano e nel Banco Ambrosiano.
Il fil rouge collega questi fatti a ciò che avvenne il 18 giugno 1982 quando il Presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi venne ritrovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra.
Nella sentenza di assoluzione per l’omicidio di Calvi era imputato fra gli altri il boss di Cosa nostra Pippo Calò e, per quanto sia una sentenza senza colpevoli, vi è abbastanza materiale per dimostrare matematicamente, grazie al preciso lavoro del magistrato Luca Tescaroli, che ingenti somme di denaro di provenienza criminale sono transitate presso lo IOR per uscirne riciclate.
Si legge testualmente nella sentenza del 7 maggio 2010: “Cosa nostra impiegava il Banco Ambrosiano e lo IOR come tramite per massicce operazioni di riciclaggio. Il fatto nuovo emerso è che avvenivano quantomeno anche ad opera di Vito Ciancimino (ex sindaco mafioso di Palermo, morto nel 2002, ndr) oltre che di Giuseppe Calò”.
Nel 2008 la Procura di Roma aveva aperto un’inchiesta bis poi archiviata nel 2016. Nel decreto di archiviazione il giudice scrive che veniva consegnata “un’ipotesi storica dell’assassinio difficilmente sormontabile”. Nella richiesta di archiviazione si parla anche dei legami tra il Banco Ambrosiano e lo IOR, e si evidenzia come veniva riciclato il denaro mafioso e, al contempo, si finanziava segretamente, in chiave anticomunista, “nel quadro di una più ampia strategia del Vaticano”, tanto i regimi totalitari sudamericani quanto il sindacato polacco Solidarnosc proprio nei primi anni di pontificato di Wojtyla.
Questo “sistema anticomunista”, che è stato alimentato e foraggiato per anni, con la caduta del muro di Berlino, di fatto cessava la propria funzione.
Le inchieste sulle stragi degli anni Novanta, e poi ancora i processi come quello sulla trattativa Stato-mafia o ‘Ndrangheta stragista, hanno messo in evidenza come dal 1989 fosse iniziato un processo che portò il Sistema criminale, di cui le mafie fanno parte, a cercare nuovi equilibri e nuovi referenti politici.
L’omicidio dell’onorevole Salvo Lima (uomo di punta della corrente andreottiana della Dc in Sicilia), le stragi di Capaci e via d’Amelio, aprono la strada a un nuovo dialogo tra Stato e mafia.
Una trattativa che prosegue anche nel 1993.
Mentre tutto era ancora in corso, il 9 maggio, Giovanni Paolo II, dalla Valle dei Templi di Agrigento tuonava contro Cosa nostra: “Dio ha detto una volta: Non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, qualsiasi mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo siciliano è un popolo talmente attaccato alla vita, che dà la vita. Non può sempre vivere sotto la pressione di una civiltà contraria, di una civiltà della morte. Qui ci vuole una civiltà della vita. Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”.

Parole dure e forti, dette a braccio. Parole che fanno male alla mafia al punto che appena pochi mesi dopo la risposta di Cosa nostra non si fa attendere.
Forse non a caso a luglio, dopo aver colpito musei e luoghi d’arte a Firenze e Milano, Cosa nostra sceglie di colpire Roma nei luoghi di San Giovanni in Laterano (“cuore della Roma cristiana”, come disse il cardinale Camillo Ruini) e a San Giorgio al Velabro.
E a settembre, appunto, l’omicidio di don Pino Puglisi che in qualche modo incarnava sul campo quel nuovo spirito della Chiesa contro la mafia.
Delitti, dunque, che rappresentavano allo stesso tempo una “punizione” e una intimidazione a tutta la Chiesa.
Lo aveva spiegato di fatto un collaboratore di giustizia del calibro di Francesco Marino Mannoia, appena un mese dopo le stragi di Roma: “Nel passato, la Chiesa era considerata sacra, intoccabile. Ora invece Cosa nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. È un messaggio chiaro ai sacerdoti: non interferite”.
E ancor più chiaramente nel recente passato lo aveva fatto intendere Totò Riina, intercettato in carcere nel 2013: “[…] Pentitevi! … Ma che mi pento! Ma pentiti tu! Perché vai facendo questi comizi? Perché sei venuto ad Agrigento? […] Ha detto ‘pentitevi! Verrà il giudizio di Dio sull’uomo’ […] Invece di fare il Papa, faceva l’antimafia pure lui! […] il Papa si deve fare i fatti suoi, si deve interessare dell’anima, dello spirito […] e quello si va a interessare alla mafia […] Non sei un Papa, tu sei un disgraziato, tu sei un prepotente, uno scellerato”.
Forse che Riina faceva riferimento alla consapevolezza che Papa Wojtyla aveva dei finanziamenti oscuri ricevuti dalla mafia per Solidarnosc, tramite lo IOR e il Banco Ambrosiano?
Come poteva permettersi, nell’ottica del boss, di andare contro la mafia alla luce di quei rapporti economici esistenti con la banca del Vaticano?
Ecco perché, in quest’ottica, le stragi e l’omicidio Puglisi possono assumere la funzione di ritorsione contro i vertici supremi della Chiesa Cattolica che in quel momento stavano cercando di smarcarsi rispetto a quanto avvenuto in passato.
E in gioco c’era molto di più che l’interesse della sola Cosa nostra.
In alcuni documenti investigativi, come quello della Dia del 4 marzo 1994 che fu firmato da Pippo Micalizio, veniva ritenuta come “certa” la matrice mafiosa degli attentati di Roma, Firenze e Milano, ma al contempo si evidenziava come fosse comunque forte “la sensazione che il nuovo indirizzo stragista inaugurato dalla mafia perseguisse in realtà obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusivi di Cosa nostra”.
Per questo motivo le stragi non dovevano leggersi “come consueti attentati di mafia, seppure gravissimi, bensì come atti di vera politica mafiosa, la cui riconducibilità alla mafia, intesa come organizzazione criminale chiamata ‘Cosa nostra’ doveva procedere in modo graduale, attraverso una serie di stadi intermedi che rappresentavano altrettanti momenti di convergenza operativa ideativa”.
In quest’ottica è possibile rileggere diversi accadimenti avvenuti in quegli anni.

Rispetto al 1993 potrebbe non essere un caso che ad agire in questi delitti sia stata assoluta protagonista proprio la famiglia mafiosa di Brancaccio.
I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, in quel preciso momento storico, erano protagonisti non solo delle stragi (proseguendo la linea di Totò Riina in totale accordo con Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro e con lo “sta bene” di Bernardo Provenzano) ma anche di quella trattativa nella ricerca dei nuovi referenti politici che troverà il suo compimento nel 1994 quando, nel bar Doney di Roma, a Spatuzza racconta che era stato raggiunto un accordo. È in quell’occasione che gli fece i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Persone, grazie a cui si sarebbero messi “il Paese nelle mani”.
In quei giorni, il 23 gennaio 1993, era in programma un nuovo attentato, sempre a Roma, stavolta allo stadio “Olimpico” in occasione della partita Roma-Udinese.
Solo un malfunzionamento del telecomando che doveva azionare l’autobomba evitò quell’ultima strage.
Il 26 gennaio è storica la trasmissione televisiva in cui Silvio Berlusconi annunciò la propria discesa in campo e la costituzione del partito Forza Italia. Il giorno dopo entrambi i fratelli Graviano furono arrestati e l’ultimo colpetto non si rese più necessario.

Ad anni di distanza, nel 2020, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel processo ‘Ndrangheta stragista Giuseppe Graviano ha affermato di aver avuto rapporti di natura economica con Berlusconi e di essersi persino incontrato con l’ex Premier per ben tre volte durante la latitanza.
Verità? Menzogne? Tutti aspetti che oggi sono al vaglio della magistratura che indaga sui mandanti esterni delle stragi del 1993.
Qualora decidesse di collaborare con la giustizia, Giuseppe Graviano potrebbe svelare fino in fondo molte verità.
Magari anche sul “buco nero” che si nasconde dietro quella rappresaglia contro il Vaticano che si consumò in quella terribile stagione.
Tra affari da far rispettare e trattative da condurre le parole dette nella Valle dei Templi stonavano alle orecchie del sistema criminale.
Uccidere un prete di periferia e prima ancora colpire alcune tra le Chiese più importanti di Roma, dopo la Città del Vaticano, era un messaggio chiaro: doveva tornare il silenzioso quieto vivere.
Parliamo di ipotesi, certo, ma è un dato di fatto che successivamente soltanto Papa Francesco ha avuto il coraggio di tuonare nuovamente contro i mafiosi, addirittura scomunicandoli (“I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati“).

Una verità cruda, ma reale.
Per fortuna oggi alle parole si accompagnano i fatti di quei missionari, operatori e uomini di fede che non hanno mai voluto, e non vogliono, scendere a patti con la mafia ed i sistemi criminali.

(fonte antimafiaduemila.com)