Terzo appuntamento “Con Francesco d’Assisi alla scoperta di Dio e dell’uomo” che ci aiuta a conoscere meglio la figura del Poverello attraverso un lavoro di Fra Arturo Milici Frate Minore che attualmente è inserito nella Fraternità di Ravanusa.
di Fra Arturo Milici – “Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?” (FF 1915). Le struggenti parole poste sulla bocca di Francesco dalla III Considerazione sulle stimmate, al di là dell’amplificazione agiografica e poetica dell’opera trecentesca, ci aprono uno squarcio su un tema tutt’altro che periferico nell’ambito degli scritti dell’Assisano. Chi è Dio e chi è l’uomo? E cosa o chi è l’uomo davanti a Dio, in rapporto a Lui?
Chi è l’uomo per Francesco, alla luce dei suoi scritti? Sarà questa domanda ad accompagnare il nostro viaggio lungo le pagine che seguono. Una delle Ammonizioni, la XIX, dice in proposito qualcosa che ci introduce opportunamente alla questione:
“¹Beato il servo il quale non si ritiene migliore, quando viene magnificato ed esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole, ²poiché quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più. ³Guai a quel religioso che dagli altri è posto in alto, e per sua volontà non vuole discendere. ⁴E beato quel servo che non viene posto in alto di sua volontà e sempre desidera stare sotto i piedi degli altri” (Adm XIX: FF 169).
Col suo linguaggio sapienziale, il testo tratta di un tema cruciale, ieri come oggi: da una parte, il rischio dell’uomo di dipendere dall’altrui riconoscimento o giudizio; dall’altra, la beatitudine della libertà interiore.
Sembra quasi un’eco della Parola giovannea: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44).
Francesco propone un autentico cammino di liberazione, umano e spirituale allo stesso tempo. Un cammino, un esodo esistenziale che trascini l’uomo fuori dalle sue molteplici schiavitù. Che lo traghetti, cioè, non solo al di là della dipendenza dall’altrui riconoscimento (positivo o negativo che sia), ma addirittura al di là di se stesso. Infatti la meta proposta non è il raggiungimento di un’autostima egocentrica, sganciata da un sano confronto col mondo esterno, o di un’autosufficienza antropocentrica. La meta proposta è in riferimento ad una relazione, la relazione con l’Altro.
“Quantum est homo coram Deo, tantum est et non plus” (Adm XIX,2). Quanto è l’uomo davanti a Dio, tanto è, e non di più. E neppure di meno (possiamo aggiungere a buon diritto alle parole di Francesco). Davanti a Dio e al suo progetto di salvezza, cade anche il pessimismo nichilista, la sfiducia totale dell’essere umano in se stesso. L’uomo è esattamente e semplicemente quello che è davanti a Dio, in relazione a Lui, secondo Lui. Solo il Creatore conosce fino in fondo cosa sia, chi sia la creatura umana. È solo da una rivelazione divina che l’uomo può conoscere se stesso per davvero.
La rivelazione biblica, in effetti, ci presenta la storia del mondo e dell’umanità come storia di salvezza, storia divina e umana insieme; e ci fa cogliere l’uomo in relazione a Dio, in dialogo con Lui nella storia. Tale prospettiva teologica, tipica dei Padri nel primo millennio dell’era cristiana e recuperata ai giorni nostri dal Concilio Vaticano II, sembra presente e operante – seppure non in modo sistematico – anche nella spiritualità di Francesco d’Assisi, così come emerge dai suoi scritti.
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