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Cercasi adulti disperatamente

di Nicola Antonazzo – Parlare di una pandemia quando, timidamente, ce ne stiamo lasciando alle spalle una tra le più dure e pesanti potrebbe risultare poco opportuno se non addirittura offensivo. Pur essendo consapevole del rischio non trovo altro modo per definire l’inarrestabile e drammatica pestilenza che giorno dopo giorno miete vittime tra i giovani e i giovanissimi. Non si tratta del flagello della droga o di altre forme di autolesionismo né di sindromi più o meno acute frutto di profondi disagi personali. Ad uccidere le future generazioni ci stanno pensando quelli che li hanno messi al mondo. Non mi riferisco solo ai genitori ma a tutta la macrocategoria degli adulti che ogni giorno, più o meno consapevolmente, spegne luci nei loro cuori e nelle loro menti, sradica sogni e disinnesca ogni forma di speranza. Gli adulti di questo secolo si stanno rendendo colpevoli di un genocidio sociale. L’adulto medio invece di nutrire e accudire dedica tempo al proprio “self made”, dimentica di prendersi cura e punta i piedi per soddisfare i propri capricci etichettandoli come bisogni.

Il nostro secolo passerà alla storia come quello della morte degli adulti. Non se ne trova uno neanche a cercarlo. Tuttalpiù si incrociano giovani prestati a questo compito il più delle volte ben al di sopra delle loro capacità.

Verrebbe da chiedersi quando è possibile fregiarsi del titolo di adulto. Per la legge, che non va troppo per il sottile, adulto è il maggiorenne, quindi, dai 18 anni in poi tutti sullo stesso piano. Basta una certa età giuridica per essere definiti adulti? Per l’enciclopedia Treccani è, più genericamente, “una persona che ha raggiunto il completo sviluppo fisico e psichico”.  Anche questa definizione fa il paio con la prima. E se invece provassimo a spostare la prospettiva puntando l’obiettivo non tanto sul cosa fare per essere definiti adulti quanto sul dove stare? Perché forse è proprio questo il nodo da sciogliere, ricollocare la persona nel suo cammino, tornare ai fondamentali dell’evoluzione dove una generazione si prende cura di quella successiva e non si limita al semplice passo del metterla al mondo. Si è adulti quando si trasmette vita ma lo si è ancora di più quando di questa vita ci si prende cura finché i ruoli non si invertiranno. Ecco cos’è l’adulto; un essere che cura e che trova in questo gesto primordiale la sua vocazione umana, il senso della sua esistenza e la sintesi di ogni suo desiderio. Il problema si concentra tutto nella difficoltà di accompagnare o riaccompagnare il “maggiorenne” all’interno di una relazione che lo ri-qualifichi come adulto.

Il culto estremo del giovanilismo accompagnato da una malcelata ritrosia a diventare “grandi” hanno creato le basi per impedire a tanti giovani di compiere il passo verso l’età adulta. Una continua narrazione ha presentato i giovani come futuro della società e ha inchiodato tanti nella condizione di eterni giovani. Una narrazione che ha impedito a tanti (troppi) di maturare un senso fuori di sé e la capacità di vedere gli altri come un fine e non come un mezzo  In questo senso anche una certa prassi  ecclesiale, alimentata da storici raduni oceanici, che misura la qualità della vita di una comunità solo ed esclusivamente sul parametro della presenza attiva dei giovani, ha contribuito ad allungare e procrastinare il tempo interiore di adesione all’adultità, giustificando le fragilità di trentenni e quarantenni che ancora “non se la sentono” o che si “esauriscono” nel prendersi cura di qualcuno.

“Come faccio a fare diventare adulto qualcuno se ancora non lo sono io” si chiede, angosciato, il povero Howard Wolowitz, personaggio di The big bang theory, quando scopre che diventerà padre. Come ogni passaggio evolutivo, anche quello che porta nel mondo degli adulti è fatto di scelte e rinunce. Non ci sarà mai una scuola per diventare adulti se non l’aver sperimentato sulla propria pelle la carezza della cura e il profumo della presenza. Solo così smetteremo di piangere una generazione che pian pianino si dissolve nella nebbia dell’indifferenza, percepita come ostacolo alla propria realizzazione o, tuttalpiù, trofeo da esporre tra i pari.

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