Basiliani in Sicilia: il monastero di San Filippo di Fragalà

di Shara Pirrotti – Quando il giovane Gregorio prese la decisione di trascorrere il resto della sua vita nella pace e nel silenzio del modesto eremo edificato sui monti Nebrodi con il denaro del suo patrimonio familiare, certo non avrebbe mai pensato che molto presto la tranquillità di quei luoghi sarebbe stata violata da orde di arabi, i quali avrebbero quasi raso al suolo la sua abitazione; e che, poco dopo, sarebbero arrivati nuovi conquistatori a rimettere tutto a posto e a fargli sperare un futuro, quando il futuro sembrava perduto.

Né, tanto meno, avrebbe mai scommesso che, a distanza di quasi mille anni, qualcuno avrebbe ancora avuto voglia di parlare di lui e del suo monastero.

Ma per lo storico la vita semplicemente ‘avviene’, in una sintesi temporale diacronica in cui le vestigia del passato convivono pacificamente e si intrecciano in modo avvincente con le incalzanti dinamiche dell’oggi.

Per questo mi piace ricordare ancora una volta il momento in cui i Normanni, attraversato lo stretto, iniziarono la conquista della Sicilia, si spinsero fino ai monti Nebrodi, e rimasero affascinati dalla bellezza dei luoghi e dalle potenzialità del territorio. Decisero allora di fondare alcuni monasteri e restaurare i cenobi bizantini che avevano resistito alle incursioni arabe, con l’intenzione di procurarsi in tal modo l’appoggio della Chiesa e delle popolazioni di lingua greca che vivevano nell’isola, e attuare, contemporaneamente, valide iniziative economico-sociali che ritenevano indispensabili per consolidare il loro potere nell’Italia meridionale.

La fondazione normanna

Il monastero di S. Filippo di Fragalà fu edificato con questi obiettivi nel cuore di quello che a quel tempo era denominato ‘Valdemone’, oggi in provincia di Messina, nel territorio del comune di Frazzanò. Il primo abate di S. Filippo di Fragalà, appunto il monaco Gregorio, morto in odore di santità, stipulò con Ruggero d’Altavilla un accordo, per il quale il condottiero normanno avrebbe restaurato il cenobio dove Gregorio aveva patito tante vicissitudini per colpa degli <<atei saraceni>> e l’abate, da parte sua, avrebbe assicurato l’appoggio dei confratelli italogreci agli ennesimi conquistatori della Sicilia.

In ossequio alle tradizioni locali, il monastero fu dedicato a S. Filippo di Agira e popolato di monaci cosiddetti ‘basiliani’, cioè di culto e lingua greci, dipendenti non già dall’archimandrita di Costantinopoli come i loro ‘colleghi’ ortodossi, bensì dal papa di Roma.

Il monastero di Fragalà fu fondato alla fine dell’XI secolo da Ruggero il Granconte, quindi, con il preciso compito di rappresentare una sorta di  ‘polo di sviluppo’ ante litteram (senza avere le controindicazioni ambientali che le moderne raffinerie hanno rivelato sul suolo di Sicilia): la sua presenza sul territorio avrebbe dovuto favorire il ripopolamento e la messa a coltura delle terre circostanti, contribuendo a ridare vigore all’economia siciliana, davvero esausta per le continue guerre che avevano visto il suolo dell’Isola teatro di lotte tra bizantini e arabi prima e tra arabi e normanni poi.

Ruggero ebbe il merito di porre fine ai conflitti per un ragionevole lasso di tempo, sufficiente a consolidare il potere normanno e gettare le basi per la fondazione del regno di Sicilia, il cui sovrano sarebbe stato il figlio Ruggero.

Il contributo del monastero di Fragalà nel progetto di consolidamento della conquista normanna non fu trascurabile, anche perché alla sua fondazione venne dotato di un vasto territorio sul quale esercitare diritti, amministrare la giustizia civile, trarre profitti e intascare decime, che si estendeva per grandi linee dal suolo circostante il monastero stesso alle pendici dell’Etna da una parte, passando per il bosco che congiunge gli odierni comuni di Longi e Galati con Bronte e Maniace e, dall’altra parte, verso le zone costiere fino al mar Tirreno. Il territorio di pertinenza del monastero non era omogeneo: le colture specializzate si alternavano a poderi coltivati estensivamente; i frutteti cedevano il passo alle viti e agli olivi; i corsi d’acqua, dove i monaci costruirono mulini per la macina dei cereali, si alternavano a pascoli per il folto gregge del monastero; non mancavano persino spazi paludosi dove esercitare la pesca.

Possedimenti terrieri così estesi erano controllati e disciplinati dall’ingegnoso sistema dei metochia, che presidiavano il territorio nei punti più favorevoli sotto il profilo economico e strategico, o dove più soventemente accadevano dispute e soprusi. I metochia, che nei documenti del Cinquecento prendono il nome di Grange, erano dieci monasteri minori, per lo più di piccole dimensioni, dotati di cappella o chiesa, i cui monaci amministravano direttamente porzioni più o meno estese di terra, la coltivavano, reclutavano coloni e servi della gleba (‘villani’) che li aiutassero nei lavori pesanti, vi esercitavano lo jus pascendi e lo jus lignandi (cioè il diritto di fruire liberamente di foraggio e legname), ne proteggevano i confini risolvendo le controversie con il concorso delle autorità locali e di testimoni che  tutelassero i loro diritti.

La consistenza economica dei possedimenti del monastero di Fragalà; l’autorevolezza dei suoi abati, i quali interloquirono frequentemente con la classe dirigente godendo del rispetto e della devozione dei più autorevoli rappresentanti del potere; l’autodespotìa, cioè il privilegio di essere posti sotto la diretta protezione del sovrano e di amministrare i possessi autonomamente, sia nei confronti del potere civile che religioso, si protrassero per alcuni secoli, mentre il potere normanno veniva sostituito nell’Isola da quello svevo, angioino e infine aragonese.

I sovrani successivi a Ruggero, in sostanza, aumentarono il patrimonio del monastero o ratificarono quello già esistente insieme a tutti i privilegi concessi all’atto della fondazione, in modo da fare di Fragalà una struttura religiosa privilegiata, che mantenne la sua identità religiosa ed economica anche quando molti monasteri coevi erano sostanzialmente caduti in rovina o addirittura scomparsi.

In quei lunghi anni che intercorrono dall’XI secolo, quando Ruggero I volle fondare il monastero, al XV, in cui per la prima volta venne instaurato il regime commendatario, il monastero di Fragalà dimostrò una vivace e dinamica attività imprenditoriale, agricola e commerciale documentata puntualmente dalle pergamene che compongono il Tabulario del monastero conservate nell’Archivio di Stato di Palermo. Anche le relazioni dell’archimandrita Niphon relative alla prima metà del XIV secolo aggiungono preziose notizie ed evidenziano la vitalità del cenobio che continuava a sopravvivere, in condizioni tutt’altro che precarie, seppure non ottimali, al lento e inesorabile declino di quasi tutte le altre strutture monastiche di rito greco presenti nell’Italia meridionale.

Peculiarità e originalità del monastero di Fragalà rispetto alle altre comunità italogreche

abbazia_fragala-300x200 Basiliani in Sicilia: il monastero di San Filippo di FragalàE’ importante sottolineare, ancora una volta, che il monastero di Fragalà rappresenta un unicum nel panorama monastico italogreco dell’Italia meridionale, sia per il protrarsi delle sue favorevoli vicende politico-economiche, sia perché è possibile seguirne la storia, sia pure a grandi linee, a fundationibus fino all’epilogo: cioè dall’XI secolo, quando Ruggero d’Altavilla volle trasformare il piccolo cenobio bizantino in uno dei  maggiori catalizzatori religiosi ed economici di Sicilia, fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando le leggi eversive della feudalità espropriarono le corporazioni religiose dei loro beni e costrinsero i monaci di Fragalà ad andare via definitivamente dal monastero. E anche oltre l’allontanamento dei monaci, cioè fino a quando l’edificio, sfumato il rischio che potesse trasformarsi in carcere, venne parzialmente rilevato da privati che per i i 3/4 del XX secolo lo ‘adattarono’ a ricovero per bestie, foraggi e attrezzi.

I successivi restauri delle Soprintendenze per i Beni Culturali di Catania e di Messina avviarono il graduale recupero dell’edificio dal degrado nel quale era caduto, rendendolo superstite fino ai nostri giorni in buono stato di conservazione, sia pure in attesa di ulteriori lavori che lo restituiscano integralmente nel suo splendore. Grazie alla sensibilità e alle numerose iniziative dell’attuale giunta comunale e delle associazioni culturali di Frazzanò, inoltre, il monastero di Fragalà conosce già da alcuni anni una nuova vitalità, ospitando eventi, mostre, convegni e proponendosi al turismo culturale come valida alternativa alle mete marittime stagionali.

La parabola evolutiva del monastero è rintracciabile per intero in questo vastissimo arco di tempo – quasi mille anni!- grazie al patrimonio documentario, che si è conservato sia per fortunate vicende ma anche, soprattutto, per la sollecita accortezza dei suoi abati, i quali, desiderando perpetuarlo nei secoli, provvidero più volte a far riscrivere de verbo ad verbum, cioè parola per parola, gli atti più antichi quando fossero ormai consumati e quasi illeggibili.

Tra il Trecento e il Quattrocento, infatti, furono trascritti i documenti importanti di cui gli abati ritennero necessario conservare più copie, tradotte dal greco in latino o in volgare per essere più facilmente comprensibili sia ai giudici che ai monaci stessi nel corso di ipotetiche controversie. Questa solerte vigilanza sul patrimonio documentario del monastero, o almeno sulle ‘carte’ più importanti per la vita socioeconomica del monastero, fece sì che, come pochi altri monasteri italogreci, S. Filippo di Fragalà tramandasse fino ad oggi un cospicuo materiale cartaceo e pergamenaceo.

 

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