• 22 Ottobre 2024 16:52

Quotidiano di ispirazione cristiana e francescana

La scuola d’italiano, il riconoscimento dei titoli di studio, un percorso di formazione professionale ma anche un aiuto verso l’autonomia. E basterebbe anche un solo anno per mettere in pratica tutto questo: per rendere “integrato” il migrante che arriva in Italia. Sullo sfondo ci sono invece quei centri in Albania e quel gioco dell’oca sulla pelle delle persone.

Ne sono convinte le realtà cattoliche e il mondo dell’associazionismo che fa capo alla Chiesa. Su una cosa tutti concordano: quei 900 milioni destinati alla realizzazione dei centri in Albania, potevano certo essere destinati a opere di buona accoglienza e di buona prassi di integrazione.

Parla di un percorso di primissima accoglienza, semi autonomia e autonomia completa, Daniela Pompei, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi ai migranti. «Dopo dieci anni di esperienza con i corridoi umanitari possiamo dire che bisogna intervenire presto e avere subito un luogo dove vivere che può essere un centro di accoglienza –spiega – ma quello che è importante è che l’accoglienza preveda l’insegnamento della lingua italiana o il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero o per i minori l’inserimento a scuola».

È ovvio che la cosa migliore per tutti sarebbe quella di «favorire al massimo le vie legali d’ingresso per togliere anche ai trafficanti di uomini un’arma nelle loro mani» aggiunge la responsabile di Sant’Egidio.

L’insegnamento della lingua, aggiunge, andrebbe però fatta in centri esterni al luogo in cui il migrante vive: ad esempio nelle scuole per cominciare a conoscere la realtà del territorio.

L’altro tema fondamentale è anche la proposta di corsi di formazione professionale, « vista anche l’enorme carenza di lavoratori che si trova ad avere il nostro sistema produttivo». In aggiunta al riconoscimento dei titoli di studio. «In questo modo possiamo rendere utilizzabili delle risorse che già abbiamo –aggiunge Daniela Pompei – tra chi è arrivato negli ultimi due anni in Italia ci sono persone ad esempio latino americane che hanno titoli di studio per infermieri e bisogna pensare come rendere accessibili questi titoli per il nostro sistema». Dopo il lavoro però c’è anche la questione “casa”. «Oggi i migranti che sono già arrivati quasi alla fine del percorso di integrazione trovano difficoltà a trovare un alloggio e a mantenerlo – aggiunge – servirebbe quindi un sostegno iniziale anche per sostenere ad esempio il costo delle patenti».

Mettendo in campo tutte queste misure basterebbe un un anno per rendere integrato una persona singola e un anno e mezzo per un intero nucleo familiare.

Soldi necessari per l’accoglienza e l’integrazione, quindi. Anche Padre Camillo Ripamonti del Centro Astalli non ha dubbi. «Negli ultimi anni si è persa di vista la dimensione dell’inclusione e dell’integrazione – spiega – ci concentriamo molto sull’accoglienza, sull’arrivo, sull’investire per non farli partire». Anche Padre Camillo mette al primo posto l’insegnamento dell’italiano.

Gli ultimi provvedimenti del governo, in materia di ospitalità, prevedevano invece che nei Cas (i centri di accoglienza straordinaria delle persone richiedenti asilo, ndr) venisserno erogati solo vitto, alloggio e assistenza sanitaria. «L’insegnamento dell’italiano e la formazione lavorativa sono invece i due elementi che, anche in seguito ai processi di valutazione delle domande d’asilo andrebbero comunque portati avanti perché se poi le persone vengono rimpatriate in una percentuale bassissima di casi: queste persone alla fine rimangono sul nostro territorio e nel frattempo hanno perso tempo». Insegnamento dell’italiano e formazione lavorativa «sono i due elementi che servono per guardare un po’ al futuro» sottolinea Padre Camillo.

A lungo andare il rischio è quello di creare marginalità. «I soldi dei centri in Albania? Sarebbero stati investiti meglio in processi di integrazione, uscendo così dalla logica punitiva del migrante che arriva in modo irregolare sul territorio italiano e non ha diritto a niente».

Intanto l’impegno della Chiesa italiana per l’accoglienza dei migranti e per l’assistenza a profughi e richiedenti asilo sul territorio nazionale, lungo le rotte migratorie e nei Paesi d’origine resta forte e in aumento.

E tra le grandi città, c’è Milano che non si tira indietro. L’ultimo rapporto della Caritas Ambrosiana parla di un 63,9% di immigrati (contro il 60,9% del 2022) che si sono rivolti ai servizi di aiuto. Ma guardando alle politiche migratorie nazionali, Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana, non nasconde la difficoltà a gestire le persone sul territorio. «In generale bisogna avere ben chiaro quale è l’obiettivo finale di questa accoglienza – sottolinea – se è quella cioè di dare la possibilità a questi migranti di manifestare la propria domanda e poter entrare in un percorso per avere un futuro. Se l’obiettivo e questo da quando sbarcano a quando vanno con le loro gambe ci deve essere una coerenza complessiva». Ma non è così perché poi l’accoglienza e per chi è in prima linea per integrare, «è una lotta estenuante, una corsa ad ostacoli per l’emigrato che capisce che è indesiderato. Lo avverte da quando sbarca sino a quando ha più anni di permanenza in Italia e ha i figli a scuola». È necessario invece, per il numero uno dell’ente caritatevole ambrosiano, «pensare a un ospitalità più diffusa, con piccoli numeri, in comunità che li possano accompagnare. Ma manca la volontà politica e se manca quella volontà anche chi si occupa di queste cose fa fatica a fare un lavoro fatto bene e così i migranti diventano fantasmi e invisibili e ci lamentiamo».

(fonte Avvenire)