• 22 Novembre 2024 18:01

Quotidiano di ispirazione cristiana e francescana

L’intelligenza artificiale non è un’orchidea

Chi influenza chi, nel gioco delle imitazioni e delle rappresentazioni che rimodula incessantemente miriadi di distorsioni spiazzanti, rispetto alle quali i classici specchi che tutti hanno utilizzato qualche volta in estratti di filosofia fai da te, piazzati qua e là per fare bella figura, sono niente altro che chincaglieria da mercato rionale? Forse è impossibile dirlo. La categoria fondante delle nuove sintassi digitali è una imprendibilità che reinventa i suoi stessi schemi per infrangerli senza che questo vieti una coesistenza perfettamente congrua della contraddizione con il suo paradosso, di una ipotesi e il suo contrario, dell’alpha e dell’omega che sono insieme principio e fine senza soluzione di continuità alcuna.

Come se non bastasse, tutto questo elaborare si verifica in tempi talmente minimi da risultare pressoché istantanei, verificando il caso – mai dato nella storia in questo modo dirompente – di una coabitazione perfettamente pacifica del quasi-tutto e del suo contrario. Quasi tutto che a sua volta non può opporre resistenza alla nuova speculazione, alla ricostruzione del processo che ha contribuito a dissolvere, alla discussione che riesca a reggere una sfida tanto inedita.

Potrebbe sembrare una banalità, ma le sue implicazioni sono particolarmente invitanti per non servirsene nel paragone con ciò che accade tra io, persona, e la IA, apparato-non-apparato che esiste in quanto relazione cangiante con chi lo crea e lo nutre. I termini sono impropri per certi versi, come il fraintendimento che potrebbe inficiare la riflessione di Deleuze attribuendo una sorta di intenzione a comportamenti veicolati unicamente dalla meccanica biologica che stringe tra le sue ganasce provvidenziali tutti noi, non solo la vespa e l’orchidea. La differenza sostanziale tra io persona e la IA può giocare indifferentemente a favore o a sfavore della controparte umana, l’altra, quella tecnologica, scorre indifferente nel flusso privo di identità che la rende evento.

Io che interagisco con ChatGpt e affini divento certamente un po’ IA, la assorbo come una spugna spinto da sensazioni tutte umane, attivando forme di empatia a vari livelli influenzate dal mio abito psicologico, suggestionabile soprattutto da ciò che sembra volermi assecondare. Il processo artificiale con me, invece, non intesse alcuna relazione, resta del tutto impermeabile a influenze di sorta che non si situino al livello puramente orizzontale e meccanico dei prompt, delle porzioni di codice, delle catene cinetico-linguistiche così ricche e così prive di qualunque significato, nella accezione umanistica che gli attribuiamo. Lo scorrere in continuo divenire della IA diventa un po’ “me” solo nei termini logistici di digestione dati ma, non si può negare, finisce per imitare così bene ciò che sono ed è capace di leggermi grazie agli effetti che proietto sul mondo esterno, da obbligarmi praticamente ad attribuirgli una identità.

Il divenire è il territorio privilegiato di questa imperfetta disambiguazione, condivisa almeno in parte. Nel costante confronto tra me e l’intelligenza artificiale la certezza è proprio questa: il divenire. Di cosa non si può dire mai con certezza, a dispetto di ciò che si vuole far credere perché è comodo, perché è funzionale, perché si vende bene sia come prodotto che come sua negazione.

Se le protesi fisiche e robotiche sono in continua evoluzione per step progressivi che le trasformano in progetto e quindi in realtà, quelle che interessano la sostituzione, l’implementazione, il prolungamento di abilità o disabilità sensibili e immateriali attinenti le sfere cognitive concretizzano un modo di produzione peculiare, istantaneo, che può fare a meno del prima e del dopo, fatti reali e immediati di un divenire innestato in forme di codice che ci parlano con voce amica come il buon Siri.

Siamo molto oltre la vespa e l’orchidea con i loro intercorsi evolutivo-poetici. In questo ambito si procede per vie del tutto nuove e prive di qualunque logica fissa, conservativa o distruttiva che sia. Qui vale tutto e tutto può essere giustificato dal suo stesso accadere.

Poi ci salvera l’algoretica, certo. A me pare come voler trattare le equazioni di Maxwell con un abaco babilonese, magari è anche possibile, ma decisamente improbabile. L’algoretica è una convenzione che fa intendere possibile una bonifica delle paludi. Ma non si tratta di invasi e corsi d’acqua. Si tratta di un magma informe in cui ogni fisica esplode di infinite regole per infiniti universi che generano costantemente infiniti ibridi, di cui siamo in parte autori, in parte vittime, e rispetto cui siamo, nella verità dei fatti, la fonte inincidente.

Si possono creare confini per una applicazione che ci aiuti a controllare la domotica, si possono delimitare recinti di territori che si vedono, paracarri per strade che esistono, ma si tratta comunque di casi particolari e ristretti rispetto a un processo talmente viscerale ed esteso da non poter essere quantificabile.

Quel luogo misterioso brulicante di cromosomi dalle grammatiche imprevedibili in cui i semi linguistici si fondono e ricombinano in un crossing over ribelle che snobba ogni biologia, la mia, la vostra, di ognuno, è un luogo perennemente in movimento, inesistente per certi versi, molto concreto per altri, dall’accessibilità a senso unico, lui verso noi, un luogo in cui la segnaletica è solo l’illusione estemporanea di poter individuare una direzione, un tragitto, smembrati in miriadi di percorsi tutti nuovi e subito vecchi, apocalittici di apocalissi che durano il tempo di un passaggio di frequenza.

Affascinante, tremenda, stimolante, mortale, la vertigine. Forse anche intelligente. Vespa o orchidea, poi, non interessa più a nessuno.

(fonte Avvenire)