Elaborare un Catalogo di quanti “hanno versato il loro sangue per confessare Cristo e testimoniare il Vangelo” in questo primo quarto di secolo: questo l’incarico che Papa Francesco ha affidato, in vista del Giubileo del 2025, alla “Commissione dei Nuovi Martiri – Testimoni della Fede”, istituita con una lettera il 3 luglio scorso. L’obiettivo è far sì che la memoria dei “nuovi martiri” possa spiccare “come tesoro che la comunità cristiana custodisce” e aiutare i credenti a leggere anche il presente “alla luce della Pasqua, attingendo dallo scrigno di tanta generosa fedeltà a Cristo le ragioni della vita e del bene”. Tra i “frutti maturi ed eccellenti della vigna del Signore” è, senz’altro, da annoverare Rosario Livatino.
Un magistrato ucciso in odium fidei
Il Papa ha definito “martire della giustizia e della fede” il magistrato siciliano originario di Canicattì, il giorno della beatificazione, il 9 maggio 2021. Impegnato nella lotta alla criminalità organizzata e alla tangentopoli siciliana e fervido credente, Rosario Angelo Livatino è stato assassinato all’età di 37 anni il 21 settembre 1990. La sua viene riconosciuta come morte di mafia; “ucciso per la fede in Cristo e nella Chiesa” è la motivazione che decreta la sua beatificazione. Quello di Livatino è stato martirio, si legge nel documento del 21 dicembre 2020 della Congregazione delle Cause dei Santi. La biografia, pubblicata dallo stesso dicastero vaticano, spiega che a spingere “i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpire Rosario Angelo fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede”. Infatti “era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante” e, dalle testimonianze raccolte, “emerge che l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei”.
Una fede profondamente vissuta nella quotidianità
Livatino, sin da giovane, frequenta la parrocchia e l’Azione Cattolica, tiene conversazioni giuridiche e pastorali, offre il suo contributo nei corsi di preparazione al matrimonio e interviene ad incontri organizzati da associazioni cattoliche. La carriera e gli impegni di lavoro non lo allontanano dalla fede e ogni giorno, recandosi alla Procura di Agrigento, si ferma a pregare. Sceglie una chiesetta fuori mano, San Giuseppe, per raccogliersi in incognito, e anche per la Messa domenicale decide di andare dove può passare inosservato. È consapevole dei rischi cui è esposto per le inchieste portate avanti, ma, malgrado le intimidazioni, continua a compiere il suo dovere con rettitudine e rifiuta la scorta per non esporre altre persone al pericolo di morte. Morte cui va incontro andando in ufficio con la sua auto la mattina in cui il Tribunale deve decidere le misure di prevenzione da adottare nei confronti dei boss mafiosi di Palma di Montechiaro. Quattro i sicari incaricati di freddarlo in un agguato. In fin di vita, prima del colpo di grazia esplosogli sul viso, il giudice si volge verso di loro con mitezza.
Una reliquia in pellegrinaggio porta ovunque gli ideali di Livatino
“Il giudice deve offrire di sé stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile, l’immagine di uno capace di condannare, ma anche di capire”, ha detto Rosario Livatino tenendo una conferenza sul ruolo del giudice nella società che cambia il 7 aprile 1984. Due anni dopo, parlando di fede e diritto, ha affermato che “contrapporre i concetti, le realtà, le entità della fede e del diritto può dare di primo acchito l’impressione, l’idea di una antinomia, di una contrapposizione teorica assolutamente inconciliabile” ma che “così invece non è” perché “queste due realtà sono continuamente interdipendenti fra loro” e “in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile”. Il pensiero del giovane magistrato oggi raggiunge scuole, parrocchie, enti grazie anche alla peregrinatio di una reliquia. La camicia che Livatino indossava il giorno del suo assassinio, consunta dal sangue del martirio, che per 32 anni è stata un reperto processuale conservato negli armadi blindati del Tribunale di Caltanissetta, chiesta in affidamento dalla Curia di Agrigento e conservata in una teca d’argento, dal 19 settembre 2021 viaggia per l’Italia. Ad oggi sono state più di cinquanta le sue tappe, nel gennaio di quest’anno è arrivata a Roma ed è stata esposta e venerata anche nelle sedi delle più alte istituzioni della Repubblica Italiana.